Federico Caffè è una delle figure più enigmatiche dell’economia italiana. Il suo nome è legato non solo al rigore intellettuale e all’impegno civile, ma anche a un mistero irrisolto: la sua scomparsa, avvenuta tra la notte del 14 e l’alba del 15 aprile 1987, dopo un periodo segnato da lutti, malattia e un crescente senso di isolamento. Economista keynesiano, docente di politica economica alla Sapienza di Roma, Caffè partecipò ai lavori della Costituente per la redazione della Costituzione italiana, contribuendo alla riflessione sui principi economici e sociali.
Il brano che segue, tratto dalla raccolta Contro gli incappucciati della finanza, riflette la sua lucidità polemica e la capacità di smascherare le opacità del sistema economico. Con il termine “incappucciati”, Caffè denuncia l’anonimato e la mancanza di trasparenza di operatori e procedure finanziarie, mettendo in guardia contro i rischi di un capitalismo dominato da interessi opachi e da logiche speculative, lontane dal bene comune.
Buona lettura.
Federico Caffè, Contro gli incappucciati della finanza, 2013 (Castelvecchi).
«Il desiderio di informazione economica trova spesso, e nelle sedi più autorevoli, risposte parziali e selettive. Si sottolinea, ad esempio, l'esigenza di «capitale di rischio», ma si lascia nell'ombra se ciò debba o meno essere compatibile con l'esistenza di operatori coperti dall'anonimato, o «incappucciati», di cui costituiscono ormai familiari esempi le fiduciarie «estere» Euramerica e Nicofico. Pure, il problema andrebbe affrontato e con schiettezza. Si potrebbe allora aprire il discorso sulla desiderabilità sociale di procedure del genere. Ma passare sotto silenzio il fenomeno è segno di cattiva coscienza, né contribuisce alla linearità di un dibattito, i cui termini debbono essere chiari a tutti i cittadini e non soltanto a ristretti iniziati.
Dal rischio all'impresa. La possibilità, che gli imprenditori rivendicano, di svolgere il proprio compito senza eccessivi intralci ed appesantimenti non è un aspetto che possa esaminarsi senza tener conto che problema cruciale dei nostri tempi è proprio quello del superamento della struttura «monarchica» dell'impresa. Se la «partecipazione» non è un'espressione retorica, ma qualcosa che deve emergere e maturare con l'esperienza, non si può pretendere che essa non sia inizialmente difficile e, a volte, contraddittoria. Del resto, quale lungimiranza di visione è stata dimostrata dagli imprenditori con le disumane concentrazioni che le loro decisioni hanno favorito, con la mole dei costi sociali (dall'inquinamento agli infortuni sul lavoro) scaricati sulla collettività, con l'ostentazione di consumi cospicui ed urtanti nello stile e provocatori nella sostanza?
Chi, dalla palude delle cose dette a metà, voglia sollevarsi verso un'atmosfera più pura, può farlo con l'ausilio delle pubblicazioni che si segnalano. Esse hanno carattere diverso, ma sono accomunate dal fatto di essere dovute ai conoscitori più eminenti di cui il nostro Paese disponga.
Le Lezioni di teoria della produzione di Luigi Pasinetti si devono, infatti, all'esponente più prestigioso di quella scuola che vien talvolta designata come italo-cambridgiana. Pasinetti è tra gli economisti italiani maggiormente noti sul piano internazionale e l'aver raggiunto questa posizione di prestigio prima del conseguimento della cattedra universitaria in Italia non gli ha impedito di ottenerla, quando l'ha desidera. Forse la cosa sarebbe stata oggi più difficile, con gli aberranti in convenienti dell'attuale sistema di concorsi, frutto di una legge tecnicamente assurda e di una irrazionalità folle. Né il male consiste nell'averla approvata, in quanto l'errore fa parte della condizione umana, bensì dalla mancanza di qualsiasi intendimento di rettificarne le mostruose incoerenze. Ciò, d'altra parte, non deve sorprendere.
La ricchezza di informazioni e di conoscenze dirette che Franco Momigliano ha trasfuso nel volume Economia industriale e teoria del l'impresa, si ritrova in altro suo scritto su L'esperienza del controllo dei prezzi, destinato sicuramente a rimanere un testo classico di economia applicata.
Vi si dimostra, tra l'altro, che agli errori delle disposizioni legislative, apparsi evidenti sin dalle prime applicazioni, si sarebbe potuto porre tempestivo rimedio; ma ciò non è accaduto, con conseguenze gravissime. Il caso delle recenti leggi universitarie non è quindi isolato. II persistere degli errori, molto spesso attribuito alle pressioni degli interessi sezionali che si avvantaggiano della loro mancata correzione, dipende in ragguardevole misura anche dall'abitudine nazionale di volgere contemporaneamente molti ruoli (di parlamentare, di ministro, di capopartito o capo corrente, di insegnante, e così via), senza mettere in alcuno l'approfondimento delle esistenze dedicate. Soltanto da queste possono ottenersi opere come quelle in esame che, sia pure su diversi livelli di astrazione, costituiscono contributi di fondamentale importanza all'analisi approfondita dei problemi connessi con il processo della produzione e l'impresa.
Le Lezioni di Pasinetti riguardano un campo di indagine che è oggetto di un processo di serrata revisione critica, compiuto ripercorrendo dalle origini il corso del pensiero economico. Parte affascinante della trattazione è infatti una rassegna dei precedenti storici che, partendo dal più antico sistema di interdipendenze industriali, il Tableau économique di Francois Quesnay, passa ed esaminare le posizioni di Ricardo, Marx, Walras e Wicksell (come esponenti dei marginalisti) e perviene ad una analisi originale degli schemi contemporanei di Leontief e di Sraffa. È un cammino che non procede in senso estensivo verso un maggiore accostamento alla realtà, bensì nel senso intensivo di un sistematico controllo critico dei concetti adoperati. Il ragionamento è infatti limitato ai processi produttivi riguardanti una sola merce. Inoltre, l'unico fattore dinamico preso in considerazione è quello connesso con l'aumento della popolazione. Si è quindi sul piano delle «eroiche astrazioni» che, per il momento, escludono le complicazioni derivanti dal caso della produzione congiunta di più merci e dalla considerazione del progresso tecnico.
Ma, perseguito con sistematicità, il rigore non manca di produrre frutti significativi: sia pure, allo stato delle cose, di carattere puramente negativo: «Idee che per più di mezzo secolo erano sembrate basilari alla teoria economica – quali quelle di "capitale" come un fattore della produzione, di saggio di profitto come "prezzo”, e quindi razionatore ottimale del fattore "capitale", di funzione della produzione in termini di "capitale" e "lavoro", di produttività marginale del capitale, ecc. – si sono dimostrate con fondamenta difettose o addirittura inesistenti». Ci vorrà tempo, prima che questo processo di depurazione raggiunga livelli meno astratti. Ma, se almeno sin d'ora l'impiego delle categorie tradizionali della teoria della produzione (a cominciare dal profitto come «prezzo» e presunto razionatore ottimale del fattore «capitale») avvenisse con maggiore cautela, si eviterebbe il dispendio, in battaglie polemiche di retroguardia, di energie intellettuali che potrebbero essere più proficuamente adoperate per l'elaborazione di nuove sintesi costruttive.
Carattere diverso, e in certo senso integrativo, ha il grosso volume di Momigliano che «si occupa, con prevalente riferimento al sistema economico italiano, di numerosi argomenti che coinvolgono problemi rilevanti nelle economie industriali "mature" del mondo capitalistico moderno». Nelle mille pagine del volume, gli argomenti e i problemi rilevanti presi in esame sono in realtà tali da costituire «summa» della problematica connessa con l'economia industriale e la teoria dell'impresa. E, per quanto si abbia ritegno a dire che una trattazione riempia una lacuna della letteratura, per l'abuso che si è fatto dell'espressione, nel caso del libro di Momigliano essa è di stretta pertinenza.
Non vi è aspetto dell'economia e della politica industriale – dal fenomeno della concentrazione agli investimenti esteri, dall'innovazione tecnologica alla previsione della domanda e formazione dei prezzi, dalla teoria della localizzazione alle politiche di incentivazione – che non sia esaminato con una ricognizione accurata della letteratura e con acume critico acquisito con esperienze dirette di lavoro e di ricerca nel mondo industriale. Ed è questa conoscenza «interna» che conferisce particolare valore ai giudizi che l'Autore esprime sul sistema industriale italiano, contribuendo a chiarire le difficoltà che esso oggi sperimenta. Sono difficoltà non riconducibili unicamente «alla accresciuta forza sindacale, alla inefficienza della Pubblica Amministrazione, alla sfida proposta dalla inasprita competizione»; ma anche al fatto che il nostro sistema industriale, nonostante le apparenze di certi indici, non aveva raggiunto con adeguati processi tecnologici uno stadio sufficientemente avanzato».
Trova quindi conferma, con riferimento all'esperienza più recente, quei tratti distintivi di «capitalismo pigro» che alcuni giovani storici (Toniolo, Ciocca) hanno indicato come caratteristici del nostro sistema industriale. Anche per gli imprenditori, non meno che per i teorici, strumenti conoscitivi e valutazioni documentate, che siano di ausilio a profondi ripensamenti critici, non possono che giovare, ove se ne sappia cogliere e meditare il messaggio...».
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