«Tutto questo ci rinvia dunque […] a una vera e propria analisi della logica sociale del consumo. Questa logica non è affatto quella dell'appropriazione individuale del valore d'uso dei beni e dei servizi – logica della profusione ineguale, avendo alcuni diritto al miracolo, mentre gli altri hanno diritto solo agli scarti del miracolo – non è una logica della soddisfazione, è una logica della produzione e della manipolazione dei significati sociali. In questa prospettiva il processo del consumo può essere analizzato in due aspetti fondamentali:
1. In quanto processo di significazione e di comunicazione, fondato su un codice in cui le pratiche di consumo vengono ad inscriversi e ad assumere il loro senso. Il sistema è qui un sistema di scambio, è l'equivalente del linguaggio. […]
2. In quanto processo di classificazione e di differenziazione sociale, in cui gli oggetti questa volta si ordinano non di un anche come valori di status di una gerarchia. Qui il consumo può essere l'oggetto di un'analisi strategica che determina il proprio peso specifico nella distribuzione dei valori di status (in connessione con altri significanti sociali: sapere, potere, cultura, ecc.).
Il principio dell'analisi rimane questo: non si consuma mai l'oggetto in sé (nel suo valore d'uso) – si manipolano sempre gli oggetti (nel senso più ampio) come segni che vi distinguono, sia affiliandovi al vostro gruppo preso come riferimento ideale, sia deprezzando il vostro gruppo in confronto a un gruppo di status superiore.
Tuttavia questo processo di differenziazione di status che è un processo sociale fondamentale, per cui ciascuno si inscrive nella società, ha un aspetto vissuto e un aspetto strutturale, l'uno conscio l'altro inconscio, l'uno etico (è la morale dello standing, della competizione di status, della scala di prestigio), l'altro strutturale: è riscrizione permanente in un codice le cui regole, le cui esigenze di significazione come quelle del linguaggio sfuggono per l'essenziale agli individui.
Il consumatore vive tutto ciò come libertà, come aspirazione, come scelta delle sue condotte distintive, non lo vive come costrizione di differenziazione e di obbedienza a un codice. Differenziarsi è sempre nello stesso tempo instaurare l'ordine delle differenze, che è fin dal principio il fatto della società totale e supera ineluttabilmente l'individuo. Ciascun individuo, segnando dei punti nell'ordine delle differenze, per ciò stesso lo ricostruisce e si condanna di per se stesso a non esservi mai iscritto se non relativamente. Ciascun individuo vive i suoi guadagni differenziali come guadagni assoluti, egli non vive la costrizione strutturale che fa sì che le posizioni si scambino e che rimanga invece l'ordine delle differenze.
È tuttavia questa costrizione di relatività ad essere determinante nella misura in cui è in riferimento ad esso che l'iscrizione differenziale non avrà mai fine. Solo esso può rendere ragione del carattere fondamentale del consumo, del suo carattere illimitato – dimensione inesplicabile per ogni teoria dei bisogni e delle soddisfazioni, poiché calcolati in bilancio calorico, energetico o in valore d'uso, molto presto ci si dovrebbe aspettare una soglia di saturazione. Ora è molto evidente che stiamo assistendo all'operazione inversa: all'accelerazione delle cadenze consumatrici, a un forcing della domanda che fa sì che si approfondisca lo scatto stesso tra una produttività gigantesca e un consumo ancor più affollato (l'abbondanza intesa come la loro armoniosa equazione indietreggia indefinitivamente). Questo si può spiegare solo se si abbandona radicalmente la logica individuale della soddisfazione per concedere alla logica sociale della differenziazione la sua importanza decisiva, e se si distingue, inoltre, questa logica della differenziazione dalle semplici determinazioni coscienti di prestigio; infatti queste sono ancora delle soddisfazioni, il consumo di differenze positive, mentre il segno distintivo è sempre sia positivo sia negativo – è appunto ciò a far sì che esso rinvii indefinitivamente ad altri segni, e rinvii il consumatore ad una definitiva insoddisfazione.
Lo sbalordimento degli economisti e degli altri pensatori idealisti del benessere di fronte all'evidenza dell'impossibilità del sistema dei consumi di stabilizzarsi, di fronte al suo «imballarsi» e alla sua illimitata fuga in avanti, è sempre molto istruttivo. Esso è caratteristico della loro visione in termini di crescita di beni – e di redditi e in termini di relazione e di differenziazione per mezzo dei segni. Cosi Gervasi: «La crescita si accompagna all'introduzione costante di nuovi prodotti man mano che l'incremento dei redditi estende le possibilità di consumo». «La tendenza ascendente dei redditi apporta non solamente una corrente di beni nuovi, ma anche una proliferazione delle qualità dello stesso bene» (Perché? Quale rapporto logico v'è?). «L'incremento dei redditi conduce al progressivo miglioramento della qualità». Vi è sempre implicita la stessa tesi: «Più si guadagna, più si vuole e sempre qualcosa di meglio» – questo vale indistintamente per tutti e per ciascuno, mirando ciascuno ad un optimum razionale del benessere.
Molto generalmente del resto, il campo del consumo è per essi un campo omogeneo (attraversato al massimo da qualche disparità di reddito o da disparità «culturali»), che si ripartisce statisticamente attorno a un tipo medio: il «consumatore». Visione indotta dalla rappresentazione della società americana come di un'immensa classe media e sulla quale si allinea grosso modo anche la sociologia europea. Il campo del consumo è al contrario un campo sociale strutturato, in cui non solamente i beni ma anche gli stessi bisogni, come i diversi tratti culturali, passano da un gruppo modello, da un élite direttrice alle altre categorie sociali di pari passo con la relativa «promozione» di queste ultime. Non c'è alcuna «massa di consumatori» e nessun bisogno emerge spontaneo dal consumatore di base; non c'è la possibilità che esso appaia nello standard package dei bisogni a meno che non sia già passato attraverso il selected package. La trafila di bisogni come quella degli oggetti e dei beni è dunque fin dall'inizio socialmente selettiva: i bisogni e le soddisfazioni filtrano verso il basso (trickling down) in virtù di un principio assoluto, di una specie di imperativo sociale categorico che è il mantenimento della distanza e della differenziazione per mezzo dei segni. È questa legge che condiziona tutta l'innovazione degli oggetti come materiale sociale distintivo «dall'alto verso il basso» e non, all'inverso (dal basso in alto verso l'omogeneità totale) l'ascendenza dei redditi».
Jean Baudrillard, La società dei consumi, 1970 (Il Mulino, trad. G. Gozzi e P. Stefani).
Il consumo non riguarda solo ciò che si usa, ma ciò che si comunica. Gli oggetti parlano, si scambiano come segni, costruiscono relazioni e distanze. Le persone non acquistano solo per soddisfare un bisogno, ma per posizionarsi rispetto agli altri.
Quando il reddito aumenta, non si compra di più: si compra diversamente. Si sale di fascia, si cerca qualcosa che dica “non sono come prima”. Il consumo diventa una forma di scrittura sociale, fatta di codici che non si vedono ma si riconoscono.
Ogni scelta è un gesto che colloca, distingue, affilia o separa. Il valore d’uso è solo una parte del gioco.
La soddisfazione non è il punto d’arrivo. È il movimento continuo che tiene in piedi la differenziazione.
Non c’è una massa indistinta di consumatori. Ci sono traiettorie, modelli, imitazioni. I bisogni non nascono dal basso, ma filtrano dall’alto, seguendo logiche di status.
Il consumo non si stabilizza, accelera. Non perché manchi qualcosa, ma perché ogni segno rimanda a un altro. E la rincorsa non si ferma.
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