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#025 | Cattivi capi, cattivi colleghi di Alessandro e Renato Gilioli

25-08-2025 19:20

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Saggistica, Saggistica,

#025 | Cattivi capi, cattivi colleghi di Alessandro e Renato Gilioli

Mi guardano i pantaloni, all'altezza del sedere. Nessuno dice niente, qualcuno soffoca un risolino, altri si scambiano un'occhiata o mi indicano con lo sguardo.

«Tommaso R., dirigente di un'assicurazione

È un pomeriggio d'estate, sono seduto nel mio ufficio. Sto scrivendo una lettera al computer. Ho addosso il completo grigio chiaro, quello di lino e cotone. È un abito nuovo, firmato, ma mi sta già stretto alla vita perché continuo a ingrassare. Mi alzo per andare alla riunione, quella delle tre. Camminando in corridoio mi sento pesante e stanco. Gli altri sono già arrivati, siedono attorno al tavolo ovale. Appena entro nella stanza, vedo che tutti mi guardano. Mi guardano i pantaloni, all'altezza del sedere. Nessuno dice niente, qualcuno soffoca un risolino, altri si scambiano un'occhiata o mi indicano con lo sguardo. Io capisco di essermela fatta addosso.

Non so quando è successo, non so neppure come ho fatto a non accorgermene. Io, un uomo di 56 anni, me la sono fatta addosso in ufficio.

Mi metto subito seduto, facendo finta di niente; i colleghi continuano a guardarmi e a ridacchiare, io vorrei sprofondare in una voragine e non farmi vedere mai più. Per ultimo, come sempre, arriva il Dottore. Ma invece di sedersi, comincia ad annusare per aria e chiede: «Che cos'è questa puzza?». Allora gli altri ridono, ridono rumorosamente, si spanciano dalle risate, e puntano il dito verso di me. Anche il Dottore ride, anzi sghignazza.

Finalmente mi sveglio, sudato e vergognoso, come se tutto fosse accaduto davvero.

E questo non è neanche il peggiore. È solo il più frequente, quello che ritorna quasi tutte le notti. Ormai lo conosco a memoria, in ogni passaggio. Appena comincia, so già come andrà a finire. Appena comincia, so già di non avere scampo. E infatti il sogno scorre lento verso una fine che non cambia mai.

Poi ci sono gli altri, naturalmente. C'è quello della formica, per esempio. Io sono in montagna, con i miei vecchi colleghi, quelli con cui lavoravo prima. È inverno. Tutti in una grande stanza con il camino acceso; siamo in sette-otto, allegri e gaudenti, mangiamo polenta concia e beviamo vino buono. A un certo punto, però, io mi trasformo in una formica, un'orrenda formica marrone. Gli altri non si accorgono di niente, continuano a scherzare e a versarsi da bere. Ma come, non vedono che io non sono più seduto sul divano con loro? Non sentono che sto urlando, che sto gridando disperatamente, che ho bisogno di aiuto? No, non sentono niente, perché io sono solo una formica, una piccola formica marrone sul pavimento della stanza. Anzi no, non sono per terra. Sono su un ceppo di legno. È un ceppo enorme, da bruciare. Qualcuno lo prende in mano e lo mette nel camino. Sento il calore della fiamma vicino, troppo vicino, devo scappare. Il tronco è lunghissimo, pieno di ostacoli, di crateri, di resine a cui s'incollano le zampe. Io corro, corro forte e alla fine vedo l'estremità del ceppo. Ma cosa c'è là in fondo, perché è così rosso? La corteccia, laggiù, ha preso fuoco. Devo tornare indietro, devo correre dall'altra parte. Ma anche l'altro estremo ormai si è incendiato. Sono prigioniero, c'è fuoco dappertutto. Continuo a correre, da una parte all'altra, senza ragione, senza speranza. I miei amici non smettono di ridere, di scherzare e di bere.

Anche di questo sogno, ormai, conosco ogni dettaglio. Quando inizia e io sono seduto sul divano, so già che mi trasformerò in una formica e morirò nel camino senza che nessuno si accorga di niente. Mi sveglio stanco, proprio come se avessi corso per ore su un tronco in fiamme. Non riesco più a riaddormentarmi e di solito finisce che vado in cucina a divorare furioso tutto quello che trovo in frigorifero. Appena fa luce mi lavo, mi vesto e vado al lavoro. Per questo sono sempre il primo ad arrivare, al mattino.

Occuparsi di marketing è una delle poche cose interessanti che si possono fare in un'assicurazione. Offerte, promozioni, pubblicità, comunicazione, gadget, incentivi: tutto quello che si può inventare per vendere una polizza a chi ne ha bisogno, e naturalmente anche a chi non ne ha. È sempre stato il mio campo, fin dai tempi in cui il marketing era quasi una bestia sconosciuta. Per tanti anni nella stessa compagnia, facendo carriera a piccoli passi ma senza grandi problemi.

Poi, un giorno, ho deciso di andarmene e di cambiare. Sa com'è, certe volte uno si fa prendere dall'euforia: ti offrono due milioni in più al mese, una qualifica alta, l'automobile in leasing, il Gsm gratis, e finisce che tu abbocchi come una triglia.

Me l'avevano detto, i vecchi colleghi, di non cascarci. Me l'avevano detto che alla New Ins. il clima è diverso, che è una compagnia piccola e un po' pirata, che il Dottore è un tipo senza scrupoli e chi lavora con lui sogna soltanto di scappare.

Me l'avevano detto ma io non ci ho creduto. Forse ho peccato di superbia, forse di superficialità. Qui non mi hanno mai valorizzato abbastanza, ho pensato; anni e anni per avere un piccolo scatto, centomila lorde in più e una pacca sulle spalle. E invece adesso, bum, due milioni netti d'aumento al mese. Sì, è vero, non vogliono darmeli in busta paga per non versare i contributi, ma chi se ne importa? Non c'è niente di male, a prendere i soldi che mi merito. E poi ci sono i benefit, che prima neanche mi sognavo. E il Dottore, il proprietario dell'assicurazione? Non è simpatico, certo, ma mica devo sposarmelo. Dicono che sia un bandito, ma sono solo malelingue. E le dimensioni della nuova compagnia, così piccola e sconosciuta? Be', un'esperienza nuova e interessante, per me che avevo sempre lavorato in una specie di ministero.

Ah, come mi sentivo giovane e coraggioso ad affrontare il mercato, l'aria fresca, la sfida, mentre di là i miei coetanei bollivano nella noia calcolando gli anni per arrivare alla pensione! Quelli restavano al sicuro, chiusi in una compagnia solida e antica come le mura del palazzo in cui spendevano i loro giorni senza stimoli e idee.

Già, senza stimoli e idee! Ma anche giorni senza angoscia, senza rabbia, senza dolore. Senza angherie e vigliaccate, senza coltelli nella schiena. Senza il terrore di venire chiamati di notte, al telefono, per uno sbaglio mai commesso. Senza la paura che in riunione, davanti a tutti, ti urlino in faccia che sei un vecchio rincoglionito. Senza la vergogna di sentirti improvvisamente come un bambino piccolo a scuola, davanti alla cattedra di un maestro severo. Senza la sottile membrana di diffidenza che qui avvolge ogni rapporto umano, ciascuno timoroso che ogni parola detta possa poi essere riferita a lui, il boss, il proprietario, l'onnipotente. Il Dottore.

Il Dottore. A poco più di quarant'anni, ha bruciato le tappe: funzionario in una grossa compagnia, poi dirigente e top manager, prima di strappare una liquidazione miliardaria e mettersi in proprio con la New Ins. Qui è lui, solo lui, con la sua faccia terrea e il suo sorriso feroce, con i suoi gilet di velluto viola allacciati sulla pancia, a decidere tutto. È lui a stabilire i salari, i premi e le punizioni, a controllare gli orari, a firmare le buste paga, a trattenerti mezz'ora di stipendio se ti vede leggere il giornale, a fermarti in corridoio per strillarti che sei proprio un pirla se quel pomeriggio qualcosa gli è girato storto. È lui che, decidendo un mattino di non salutarti, ti lascia tutto il giorno nella paura di avere sbagliato qualcosa e di essere caduto in disgrazia. È lui che ti fa convocare dalla segretaria, «Venga immediatamente dal Dottore», e tu cammini in fretta verso il suo ufficio pregando che questa volta non urli, che non ti insulti, che non ti rovesci addosso i fascicoli e il bicchiere pieno di Enervit. È lui che minaccia di farti trovare la scrivania in mezzo al corridoio, e tu sai che può farlo, e tu sai che l'ha fatto davvero, perché qualche collega te l'ha raccontato, una volta, con un incauto sussurro. È lui che, improvvisamente, un venerdì pomeriggio, entra nel tuo ufficio e ti scarica addosso questo lavoro da fare subito, entro lunedì mattina, «Svegliati vecchio, mica abbiamo tempo di aspettare te, qui dentro». Ed è sempre lui che magari il venerdì dopo ripiomba nel tuo ufficio e ti dice di andare in Costa Smeralda a fare il week-end sulla sua barca, c'è già l'aereo pagato e lo skipper pronto, e tu ci vai, contento come un fanciullo a cui il papà ha comprato lo zucchero filato, senza sapere quante volte ti sarà rinfacciato e quale prezzo dovrai pagare per quel premio. Ed è lui, è ancora lui, che alla riunione delle tre, ogni giorno, distribuisce voti e insulti, che ti paralizza di paura e di vergogna urlandoti addosso parole che non sentivi da quando eri al militare, e i colleghi seduti vicino che incollano gli occhi al tavolo ovale, ringraziando il Signore di non essere loro, questa volta, le vittime del Dottore.

Già, i colleghi. Quelli che lavorano qui dall'inizio e pensano che tutto il mondo sia fatto così. Oppure quelli come me, che un giorno sciagurato hanno lasciato un altro posto e lo sai, anche se non te lo dicono tu lo sai che non smetteranno mai di pentirsi. I colleghi che i primi tempi ti salutano con deferenza perché, chissà, se ti hanno assunto qui magari sei un amico del Dottore, ed è meglio essere gentili con te; ma poi scoprono che invece no, sei anche tu come loro, perché ti hanno visto umiliato in pubblico da una sua urlata, e allora se t'incontrano in corridoio ti offrono con lo sguardo una falsa solidarietà che si scioglierà alla prima riunione, quando il Dottore griderà «Voglio sapere chi è stato a fare questa cazzata» e ciascuno cercherà di indicare un altro, è stato lui, io non c'entro, io non sapevo, anzi non ero d'accordo.

Già, i colleghi. Quelli che per un po' sono portati in palmo di mano, per qualche motivo che tu non conosci, e in quei giorni camminano con un mezzo sorriso sulla bocca e il petto in fuori, dimenticando o fingendo di dimenticare che la loro stella brillerà per poco, sarà solo un fuoco fatuo nel nostro cimitero quotidiano. Quelli che invece sono in disgrazia da tanto tempo che neppure loro si ricordano quanto e perché, cos'è stato che li ha fatti diventare eterni drop out, e si trascinano tra gli uffici con gli occhi stanchi e rassegnati, come vecchie fiere spelacchiate costrette in un circo che non fa ridere nessuno.

I colleghi. Quelli che al bar, all'ora di pranzo, si lasciano scappare una veloce confidenza, magari un pettegolezzo sul Dottore, lo sai che si è fatto stampare da un suo amico tipografo un falso pass per andare in macchina sulle corsie preferenziali?, e mezz'ora dopo, pentiti e impauriti, ti telefonano per dirti che loro scherzavano naturalmente, non è vero niente, e comunque non te l'hanno mai raccontato quell'aneddoto lì.

I colleghi. Quelli che al tuo rituale «Come stai?» ti rispondono con un brillante «Ottimamente, grazie!», ma stanno solo recitando un improbabile benessere per adeguarsi ai codici d'ottimismo e di produttività voluti dal Dottore. I colleghi. Quelli che hanno smesso di fumare perché il Dottore in riunione ha detto che «ormai fumano solo i negri e gli sfigati», ma se passi vicino alle loro scrivanie chiudono in fretta tutti i cassetti per non farti vedere il pacchetto di Marlboro, lì in mezzo alle carte, tra il Prozac e il Maalox. I colleghi. Quelli che magari incontri una domenica sera ubriachi fradici, in centro, fuori da un bar, e tu sai perché hanno bevuto così tanto e fai finta di non vederli, ma non per amicizia, solo perché chissà, un domani, magari, potrebbero essere proprio loro a ricambiarti il piacere.

Già, i colleghi. Quelli che alle dieci e mezzo del mattino si ritrovano davanti alla macchinetta del caffè e commentano la partita di pallone o il film visto la sera prima in tv, ma se all'improvviso il Dottore esce dal suo ufficio subito si mettono a parlare di lavoro, e lo fanno con parole rapide, efficienti e forti, perché lui possa capire che loro sì, sono lì a bere il caffè, ma in verità stanno lavorando, è solo un working break, come li chiama lui.

E chissà cosa pensano di me, i colleghi, quando davanti a tutti il Dottore urla che faceva meglio a lasciarmi dov'ero, che assumermi è stata proprio una gran cazzata, a proposito quanto cazzo mi manca per arrivare alla pensione, così mi tolgo dai coglioni? Chissà se hanno pena o compassione, i colleghi, quando mi vedono sudato, pallido e imbelle, muto davanti alla sua arroganza, incapace di una risposta qualsiasi, paralizzato come un gatto di notte davanti all'automobile che lo sta investendo. Chissà se si sono accorti, i colleghi, che sono ingrassato quindici chili negli otto mesi passati qui dentro, che la mia faccia si è disfatta in un doppio mento senza fine e il mio ventre infelice e penoso tracima dai pantaloni che ricompro, ogni mese, di una taglia in più. Chissà se mi vedono mentre mastico le noccioline, gli anacardi, i pistacchi, i cioccolatini, i torroni, i biscotti, le caramelle e i canditi che mi aiutano ad arrivare al tramonto. E chissà se immaginano che dopo, a casa, l'unico modo in cui riesco a provare piacere è riempirmi di cibo e di birra fino a farmi dolere lo stomaco.

Sì, i colleghi. Mi è capitato di ripensare a quegli altri, ogni tanto, a quelli che ho lasciato di là dove lavoravo prima. Li ho ripensati ogni giorno con più nostalgia e mi è venuta voglia di chiamarli, di vederli per un aperitivo o un caffè.

Una volta l'ho fatto. Sono andato a prenderli al vecchio palazzo in cui ho passato tanti anni della mia vita e siamo andati al bar dove ci trovavamo la mattina per un cappuccino e una brioche. Loro hanno capito tutto, hanno capito subito. Forse perché mi hanno visto così ingrassato e con due borse nere sotto gli occhi. Forse perché la giovanile baldanza con cui li avevo salutati pochi mesi prima si era infine rivoltata nel suo esatto contrario. Forse perché non avevo con me la Bmw metallizzata e neppure il Nokia dual band, quei benefit che il Dottore mi aveva promesso «sulla parola, da gentiluomini», e che naturalmente non erano mai arrivati. «Peccato che ormai hai la tua bella età e non puoi più tornare da noi» mi ha detto uno degli ex compagni di stanza. «Eh, ormai assumono soltanto i ragazzini» ha aggiunto un altro.

Sono stati davvero affettuosi, i miei vecchi colleghi. Eppure, non so, c'era qualcosa di torbido nella loro indulgente comprensione. Qualche sorriso beffardo, qualche sopracciglio alzato in segno d'intesa. Come se non fossero poi così dispiaciuti che mi fosse andata male. Come se forse li facesse perfino un po' godere vedermi crepare di nostalgia per quel soporifero ufficio che io avevo snobbato e che loro invece si tenevano stretti, saggi e prudenti, contando gli anni fino alla pensione. Come se oscuramente intuissero che ora li sto contando anch'io, quegli anni, ma ho molta più fretta di loro».

 

Alessandro e Renato Gilioli, Cattivi capi, cattivi colleghi, 2000 (Mondadori).

 

Cattivi capi, cattivi colleghi è uscito nel 2000, un anno dopo la prima sentenza italiana che ha riconosciuto il mobbing sul lavoro. Il Tribunale di Torino, nel 1999, ha condannato un datore di lavoro per aver violato il diritto del dipendente alla tutela della salute e della dignità, aprendo la strada a una nuova interpretazione del rapporto tra potere e ambiente lavorativo.

Il libro raccoglie testimonianze dirette, come quella di Tommaso R., dirigente in una compagnia assicurativa, che racconta sogni ricorrenti, umiliazioni quotidiane, isolamento, ansia e fame nervosa. Il mobbing non è descritto come teoria, ma come esperienza concreta: fatta di sguardi, silenzi, battute, riunioni, telefonate, benefit promessi e poi negati.

 

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