«Che cos'è un fatto storico? Si tratta di una domanda fondamentale, che va analizzata un po' più a fondo. Secondo l'immagine che il senso comune ha della storia, vi sono alcuni fatti fondamentali, identici per tutti gli storici, che formano, per così dire, la spina dorsale della storia – per esempio, il fatto che la battaglia di Hastings fu combattuta nel 1066. Ma a questo proposito bisogna osservare due cose. In primo luogo, lo storico non ha prevalentemente a che fare con fatti come questi. Senza dubbio, è importante che la grande battaglia fu combattuta nel 1066 e non nel 1065 o nel 1067, e che fu combattuta a Hastings e non a Eastbourne o a Brighton. Su tutto ciò lo storico non deve fare affermazioni erronee. Ma allorché vengono sollevati problemi di questo tipo, mi viene in mente l'osservazione di Housman, che «l'accuratezza è un dovere, non una virtù». Lodare uno storico per la sua accuratezza equivale a lodare un architetto per il fatto di servirsi, nel costruire gli edifici, di legname ben stagionato o di cemento adeguatamente mescolato. Si tratta di una condizione necessaria della sua opera, non già della sua funzione essenziale. È appunto per problemi di questo tipo che lo storico può ricorrere a quelle che sono state definite «scienze ausiliarie» della storia: l'archeologia, l'epigrafia, la numismatica, la cronologia e via dicendo. Lo storico non è obbligato a possedere le capacità specifiche che fanno sì che lo specialista riesca a determinare l'origine e la datazione di un frammento di ceramica o di marmo, a decifrare un'iscrizione oscura, o a compiere i complessi calcoli astronomici necessari per stabilire con precisione una data. Questi cosiddetti fatti fondamentali, identici per tutti gli storici, costituiscono generalmente la materia prima dello storico e non la storia vera e propria. La seconda osservazione è che la scelta di questi fatti fondamentali dipende non già da una qualità intrinseca dei fatti stessi, ma da una decisione a priori dello storico. Nonostante il motto di C. P. Scott, ogni giornalista d'oggi sa che il vero modo di influire sull'opinione pubblica consiste nello scegliere e nel disporre opportunamente i fatti. Si suol dire che i fatti parlano da soli: ma ciò è, ovviamente, falso. I fatti parlano soltanto quando lo storico li fa parlare: è lui a decidere quali fatti debbano essere presi in considerazione, in quale ordine e in quale contesto. Un personaggio di Pirandello, mi pare, dice che un fatto è come un sacco: non sta in piedi se non gli si mette qualcosa dentro. L'unico motivo per cui ci interessa sapere che nel 1066 si combatté una battaglia a Hastings è che gli storici lo considerano un avvenimento storicamente importante. È lo storico ad aver deciso che, dal suo punto di vista, il passaggio compiuto da Cesare di un fiumiciattolo come il Rubicone, è un fatto storico, mentre il passaggio del Rubicone compiuto prima o dopo di allora da milioni di altri individui non c'interessa minimamente. Il fatto che uno di voi sia giunto mezz'ora fa a piedi, in bicicletta o in automobile in questo edificio è un fatto del passato esattamente come il fatto che Cesare abbia passato il Rubicone: eppure, molto probabilmente esso sarà ignorato dagli storici. Una volta il professor Talcott Parsons definì la scienza «un sistema selettivo di orientamenti conoscitivi della realtà». Forse, avrebbe potuto esprimersi con un po' più di semplicità. In ogni caso, la storia è, tra l'altro, anche questo. Lo storico è costretto a scegliere. Credere in un duro nocciolo di fatti storici esistenti oggettivamente e indipendentemente dallo storico che li interpreta, è un errore assurdo, che tuttavia è molto difficile da estirpare.
Esaminiamo rapidamente il processo che tramuta un semplice fatto del passato in un fatto storico. Nel 1850 a Stalybridge Wakes, in seguito a un litigio senza importanza, un venditore di pan pepato fu freddamente linciato da una folla inferocita. Siamo di fronte a un fatto storico? Un anno fa, avrei risposto senza esitazione di no. Esso era stato registrato da un testimone oculare in un semiignorato libro di memorie: tuttavia non mi era mai successo di vederlo citato in un libro di storia. Un anno fa il dottor Kitson Clark lo ricordò in una delle Ford Lectures da lui tenute a Oxford. Ciò è sufficiente a trasformare il fatto in un fatto storico? Non ancora, a mio parere. Per ora, è stata avanzata la sua candidatura al ristretto club dei fatti storici: ora aspettiamo qualcuno che lo presenti e se ne faccia garante. Forse nei prossimi anni vedremo questo fatto comparire dapprima nelle note a piè di pagina, poi nel testo di articoli o libri dedicati all'Inghilterra nell'Ottocento, e tra venti o trent'anni esso potrebbe essere diventato definitivamente un fatto storico. Oppure, può darsi che nessuno lo prenda in considerazione, nel qual caso esso ricadrebbe nel limbo dei fatti del passato privi di rilevanza storica, dal quale il dottor Kitson Clark ha tentato coraggiosamente di liberarlo. Che cos'è che porterà al verificarsi dell'una o dell'altra alternativa? Sarà, a mio parere, l'accettazione o meno da parte di altri storici della validità e dell'importanza della tesi o dell'interpretazione in riferimento alla quale Kitson Clark ha citato il fatto. L'esser considerato o meno un fatto storico dipende, quindi, da un problema d'interpretazione. Ciò vale per ogni fatto della storia.
Vorrei inserire a questo punto, se è lecito, un ricordo personale. Quando, molti anni fa, studiavo storia antica in questa università, scelsi come tema di una ricerca particolare la Grecia nell'età delle guerre persiane. Accumulai quindici o venti libri sugli scaffali della mia libreria, e non ebbi alcun dubbio che in quei volumi fossero raccolti tutti i fatti riguardanti il tema della mia ricerca. Supponiamo che quei libri contenessero – e in sostanza era così – tutti i fatti allora noti, o che potevano esserlo, relativi al problema. Non mi capitò mai di chiedermi per quale caso, o per quale processo di selezione, quei fatti particolari erano sopravvissuti tra la miriade di fatti che un giorno avevano dovuto essere noti a qualcuno, fino a diventare i fatti della storia. Ho il sospetto che ancora oggi uno dei motivi di fascino della storia dell'antichità e del Medioevo consista nel fatto di dare l'illusione che tutti i fatti storici siano a nostra disposizione e facilmente raggiungibili: l'irritante distinzione tra i fatti storici e gli altri fatti del passato scompare, in quanto i pochi fatti a noi noti sono tutti fatti storici. Bury, che aveva lavorato in entrambi i settori, disse che «la documentazione relativa alla storia dell'antichità e del Medioevo è costellata di lacune». La storia è stata paragonata a un'enorme sega verticale piena di denti mancanti. Ma il problema principale non è rappresentato dalle lacune. La nostra immagine della Grecia del V secolo avanti Cristo è manchevole non tanto perché molti fatti sono andati perduti, ma piuttosto perché essa è, in complesso, l'immagine di un piccolo gruppo di individui abitanti ad Atene. Siamo ben informati su come appariva la Grecia del V secolo a un cittadino ateniese; sappiamo, invece, ben poco su come essa appariva a un abitante di Sparta, di Corinto o di Tebe – per non parlare di un persiano, di uno schiavo, o di un altro individuo residente ad Atene senza diritti di cittadinanza. L'immagine di cui disponiamo è stata preselezionata e predeterminata, non tanto dal caso quanto da individui che giudicavano degni di memoria soltanto quei fatti che confermavano la particolare concezione a cui, più o meno consapevolmente, aderivano. Analogamente, quando mi capita di leggere in una recente storia del Medioevo che gli uomini di quell'età erano profondamente legati alla religione, mi chiedo in che modo sappiamo questo, e se sia vero. Ciò che sappiamo della storia medievale è stato trascelto per noi da generazioni di cronisti legati professionalmente alle dottrine e alle pratiche religiose, che pertanto giudicavano la religione estremamente importante, e registravano tutto ciò che si riferiva ad essa, e non molto altro. L'immagine della devozione religiosa dei contadini russi fu distrutta dalla rivoluzione del 1917. L'immagine, vera o falsa che sia, della devozione religiosa degli uomini del Medioevo è indistruttibile, giacché quasi tutto ciò che sappiamo sul loro conto è stato preselezionato, prima di giungere a noi, da individui che condividevano quell'immagine, e volevano che altri la condividessero, mentre un cumulo di altri fatti, che magari potevano dimostrare il contrario, è andato irrimediabilmente perduto. Le morte mani di generazioni, ormai scomparse, di storici, di scribi e di cronisti hanno modellato in modo irremissibile il passato. «La storia che leggiamo – scrive il professor Barraclough, che ha avuto anch'egli una formazione di medievalista – per quanto basata su fatti, non è, a parlar propriamente, composta di giudizi di fatto, bensì da una serie di giudizi tradizionalmente accettati».
Edward Carr, Sei lezioni sulla storia, 1961 (Einaudi, trad. C. Ginzburg).
Il brano mette in discussione l’idea che la storia sia fatta di fatti oggettivi e immutabili. Ogni fatto diventa “storico” solo quando qualcuno lo seleziona, lo interpreta, lo collega a un contesto. La conoscenza non è mai neutra: è sempre il risultato di scelte, priorità, prospettive.
Ciò che sappiamo del passato dipende da chi ha deciso cosa valeva la pena ricordare. E ciò che consideriamo vero oggi è spesso il riflesso di un equilibrio tra visioni diverse, non di una verità assoluta.
La storia non è un archivio, ma un processo. E ogni processo è relativo al punto di vista da cui lo si guarda.
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