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#029 | La fine della cultura di Eric J. Hobsbawm

25-08-2025 19:40

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#029 | La fine della cultura di Eric J. Hobsbawm

I veri eroi del West erano indiani e cacciatori che avevano imparato a vivere con e come gli indiani, di fatto proprio Leatherstocking e Chingachgook...

«Comincerò la mia riflessione su una ben nota tradizione inventata in America, quella del cowboy, con una, o meglio due, domande tra loro collegate che vanno molto oltre i confini del Texas. Come mai popolazioni di uomini a cavallo che governano il bestiame in genere – ma non sempre – diventano protagoniste di mitologie potenti e di solito eroiche? E come mai, tra i molti miti di questo tipo, quello generato da un gruppo socialmente ed economicamente marginale di vagabondi proletari senza radici che ascese e declinò negli Usa nel corso di un paio di decenni del XIX secolo ebbe una tale straordinaria, anzi unica, fortuna globale? [...]

Oggi le popolazioni di cavalieri e mandriani esistono in numerose regioni in tutto il mondo. Alcuni di loro sono molto simili ai cowboy, come i gauchos delle pianure del cono meridionale dell'America Latina, i llaneros delle pianure di Colombia e Venezuela, forse i vaqueiros del Nordest del Brasile, di certo i vaqueros messicani, dai quali – come sanno tutti – derivano direttamente sia il mito del costume del moderno cowboy sia la maggior parte del vocabolario di quel mestiere: mustang, lasso, lariat, remuda (una mandria di cavalli o remount), sombrero, chaps (chaparro), a cinch, bronco, wrangler (o caballerango, mandriano a cavallo), rodeo o anche buckaroo (vaquero). In Europa ci sono popolazioni simili, come i csikos della pianura ungherese (puszta), i cavalieri andalusi nella zona di allevamento del bestiame – il cui comportamento spregiudicato diede probabilmente il primo significato alla parola «flamenco» – e le varie comunità cosacche delle pianure russe meridionali e ucraine. [...]

L'Australia, come l'Argentina e l'Uruguay, divenne rapidamente una società urbanizzata, in realtà probabilmente la più urbanizzata, a parte piccole aree, dell'Europa nel XIX secolo. Eppure il paesaggio predominante assomigliava a un selvaggio West delimitato da un paio di grandi città; e quanto all'economia dipendeva dai prodotti dei ranch in maniera assai maggiore di quanto non lo fossero mai stati gli Usa. Non è dunque sorprendente che simili gruppi di mandriani generassero miti: per esempio quello dell'entroterra australiano, che con bovari migranti proletari, tosatori di pecore e altri lavoratori stagionali ancora costituisce l'essenziale mito australiano. Waltzing Matilda, che parla di uno di questi girovaghi, è addirittura la più famosa canzone australiana. Ma nessuno di questi eroi locali ha generato un mito così popolare all'estero, e men che meno fortunato quanto quello del cowboy nordamericano. Perché? [...]

Come facciamo a scoprire perché il mito statunitense del cowboy è stato così tanto più potente di altri? Possiamo solo fare congetture. Il punto di partenza è il fatto che dentro e fuori l'Europa il «western» in senso moderno – ovvero il mito del cowboy – è la tarda variante di un'immagine molto antica e radicata, quella del selvaggio West in generale. Fenimore Cooper, la cui popolarità in Europa fu immediata – Victor Hugo lo considerava «il Walter Scott americano» –, ne è la versione più familiare. E tantomeno essa è finita. I punk inglesi avrebbero forse inventato il taglio di capelli alla moicana senza la memoria di Leatherstocking?

Direi che l'immagine originale del selvaggio West contiene due elementi: il confronto fra natura e civiltà, e fra libertà e vincoli sociali. La civiltà è ciò che minaccia la natura e (come possiamo vedere, sebbene non sia così chiaro all'inizio) il passaggio di questa da vincoli e costrizioni da prigionia o vincolo all'indipendenza, che costituisce l'essenza dell'America, come ideale europeo radicale nel XVIII e all'inizio del XIX secolo, è in realtà ciò che porta la civiltà nel selvaggio West, e così facendo lo distrugge. L'aratro che solca le pianure implica la fine del bufalo e dell'indiano. [...]

Il mito originale del West, come della stessa America, era dunque utopistico, ma nel caso dell'Occidente l'utopia era quella della ricreazione del perduto stato di natura. I veri eroi del West erano indiani e cacciatori che avevano imparato a vivere con e come gli indiani, di fatto proprio Leatherstocking e Chingachgook. Si trattava di un'utopia ecologica. Naturalmente i cowboy non potevano entrarvi finché il West era quello del vecchio North-West, il futuro Midwest. Ma anche quando il cowboy fece il suo ingresso, era semplicemente una delle tante figure sul palcoscenico assieme al minatore, al cacciatore di bufali, alla cavalleria degli Stati Uniti, all'operaio delle ferrovie e così via. [...]

Il cowboy divenne davvero un tema standard di dime-novels e media popolari degli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento; ma come ha ben chiarito Lonn Taylor, pur non escludendo l'eroismo, la sua immagine era controversa, e negli anni Ottanta divenne addirittura antisociale: «turbolenta, pericolosa, senza legge, spericolata, individualista», almeno quando pesava sulla popolazione sedentaria. La nuova immagine fu creata dalle classi medie dell'Est che erano intensamente coinvolte nell'allevamento, ed era un'immagine profondamente letteraria: lo dimostrano non solo i paragoni fra cowboy e i valorosi cavalieri medievali di Thomas Malory, e forse la popolarità del duello a mezzogiorno tra due singoli campioni – una sorta di duello cavalleresco –, ma l'origine spiccatamente europea di svariati topoi Western. Il pistolero nobile e solitario sbucato dal nulla con un misterioso passato alle spalle era già stato sfruttato dal romanziere irlandese Mayne Reid. L'idea che «un uomo deve fare quello che deve» trova la sua classica espressione vittoriana nell'ormai dimenticata poesia di Tennyson, The Revenge, su Sir Richard Grenville, che combatte praticamente da solo contro una flotta spagnola.

In termini di pedigree letterario, il cowboy inventato era una creazione tardo-romantica. Ma in termini di contenuto sociale aveva una doppia funzione: rappresentava l'ideale di libertà individuale spinta in una sorta di ineludibile prigione dalla chiusura delle frontiere e dall'avvento delle grandi multinazionali. Come ha scritto un recensore degli articoli di Remington, da lui stesso arricchiti di illustrazioni nel 1895, il cowboy vagava «dove l'americano ancora può celebrare quella grande libertà dalla camicia rossa che è stata spinta talmente lontano sulla parete delle montagne che minaccia presto di sparire da qualche parte vicino le cime». Col senno di poi il West potrebbe sembrare proprio così, come per quel William Surrey Hart, sentimentale e prima grande stella dei film western, secondo cui la frontiera del bestiame e delle miniere «per questo Paese significa la vera essenza della vita nazionale. [...] È da circa una generazione che praticamente tutto questo Paese è frontiera. Di conseguenza, il suo spirito è incorporato nella cittadinanza americana». Come affermazione generale ciò è assurdo, ma il suo significato è simbolico. E la tradizione inventata del West è del tutto simbolica, nella misura in cui generalizza l'esperienza di un pugno di individui marginali. Che importa se, dopotutto, le vittime di arma da fuoco in tutte le maggiori città di allevamento del bestiame tra il 1870 e il 1885, a Wichita, Abilene, Dodge City ed Ellsworth, ammontavano nel complesso a 45, o a una media di 1,5 durante la stagione del mercato del bestiame, o che i giornali locali del West non erano pieni di storie su risse nei saloon ma su valori di immobili e opportunità di fare affari?».

 

Eric J. Hobsbawm, La fine della cultura, 2013 (Rizzoli, trad. L. Claudi, D. Didero, A. Zucchetti).

 

Il mito del cowboy nasce da una selezione, non da una cronaca. Hobsbawm mostra come un gruppo marginale diventi simbolo globale, non per ciò che ha fatto, ma per ciò che è stato utile raccontare.

La figura del cowboy incarna libertà, frontiera, individualismo. Ma dietro l’eroe c’è un lavoratore stagionale, dietro il duello c’è una media di 1,5 omicidi all’anno.

Il testo non offre risposte, ma apre domande. Chi costruisce i miti? Quali storie vengono scelte? Quali vengono scartate? Interrogarsi su queste dinamiche non serve a smontare i simboli, ma a capire come funzionano. E a riconoscere quando un racconto diventa più potente della realtà che lo ha generato.

 

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