«Nel novembre del 1945 si aprirono a Norimberga i procedimenti penali contro i grandi criminali di guerra, e il nome di Eichmann cominciò ad emergere con preoccupante regolarità. Nel gennaio del 1946 Wisliceny si presentò come testimone dell'accusa e fece una deposizione quanto mai pericolosa, dopo di che Eichmann ritenne opportuno sparire. Fuggi dal campo, con l'aiuto di altri prigionieri, e si recò a Lüneburger Heide, una boscaglia a circa ottanta chilometri a sud di Amburgo, dove il fratello di un suo compagno di prigionia gli trovò un lavoro come taglialegna. Qui rimase quattro anni, sotto il nome di Otto Heninger, probabilmente annoiandosi a morte. Verso l'inizio del 1950 riuscì a mettersi in contatto con l'ODESSA, un'organizzazione clandestina di veterani delle SS, e nel maggio di quel l'anno, attraversando l'Austria, venne in Italia, dove un francescano che sapeva perfettamente chi era gli procurò un passaporto da profugo, intestato a "Richard Klement," e lo mandò a Buenos Aires. Arrivò alla metà di luglio, e senza alcuna difficoltà ottenne documenti d'identità e un permesso di lavoro col falso nome di "Ricardo Klement," scapolo, apolide, età trentasette anni – sette in meno di quelli che aveva in realtà.
Continuò ad essere molto cauto, ma ora scrisse di proprio pugno alla moglie dicendole che "lo zio dei suoi bambini" era vivo. Fece vari strani mestieri (rappresentante, lavandaio, lavoratore presso un allevamento di conigli), sempre mal pagato; ma nell'estate del 1952 la moglie e i figli finalmente lo raggiunsero. […] Fu allora che Eichmann trovò il suo primo lavoro stabile, presso la Mercedes-Benz di Suarez, un sobborgo di Buenos Aires, dapprima come meccanico e poi come caporeparto, e quando gli nacque il quarto figlio, "risposò" la moglie, a quanto si dice sempre col falso cognome di Klement. La cosa è però improbabile, perché il bambino fu registrato all'anagrafe come Ricardo Francisco (forse in omaggio al religioso italiano) Klement Eichmann, e questo non fu che uno dei tanti indizi rivelatori che, col passare degli anni, Eichmann cominciò a seminare sul suo cammino. […] Al principio del 1960, pochi mesi prima della cattura, Eichmann e i suoi figli più grandi finirono di costruire una primitiva, casetta in mattoni in uno dei miserabili sobborghi di Buenos Aires (niente luce elettrica, niente acqua corrente), e qui la famiglia si stabilì. Dovevano essere poverissimi, c Eichmann doveva essere molto triste, neppure i figli potevano consolarlo, giacché "non mostravano il minimo interesse a istruirsi e neppure a sviluppare il loro cosiddetto talento".
L'unica consolazione, per Eichmann, consisteva nel chiacchierare continuamente con membri della grande colonia nazista, a cui non esitò a rivelare la sua vera identità. E così nel 1955 ci fu l'intervista col giornalista olandese Willem S. Sassen, un ex-membro delle Waffen-SS che durante il conflitto si era procurato un passaporto tedesco e più tardi era stato condannato a morte in contumacia da un tribunale belga, come criminale di guerra. Eichmann si preparò all'intervista scrivendo molti appunti, poi le sue dichiarazioni furono registrate su nastro magnetico e quindi trascritte da Sassen non senza numerosi abbellimenti. […] L'intervista fu pubblicata in forma abbreviata dapprima sul periodico illustrato tedesco Der Stern, nel luglio del 1960, e poi, a novembre e dicembre, su Life, a puntate. Ma già quattro anni prima (cioè nel 1956), Sassen, sicuramente col consenso di Eichmann, l'aveva offerta a un corrispondente di Time-Life a Buenos Aires, ed anche se è vero che in tale occasione non fu rivelata la fonte delle informazioni, il materiale non avrebbe dovuto lasciar dubbi in proposito. La verità è che Eichmann si sforzava ormai di uscire dall'anonimo, ed è strano che al servizio segreto israeliano occorressero vari anni (fino all'agosto 1959) per apprendere che egli viveva in Argentina sotto il nome di Ricardo Klement. Israele non ha mai reso noto in che modo riuscì a identificarlo, sicché oggi una buona decina di persone si vantano di averlo scoperto, mentre in circoli europei "bene informati" si sostiene che fu il servizio segreto russo a far sapere in che posto si trovava. Comunque sia, il mistero non è come fu possibile scovare il suo nascondiglio, ma piuttosto come fu possibile non scovarlo prima ammesso naturalmente che davvero gli israeliani lo stessero cercando da anni: il che, stando ai fatti, è un po' dubbio.
Nessun dubbio esiste invece sull'identità di coloro che lo rapirono. Tutte le dicerie riguardo a "vendicatori" privati furono smentite fin dall'inizio da Ben Gurion in persona, il quale il 23 maggio 1960 annunziò allo Knesset, tra grandi applausi, che Eichmann era stato "trovato dal servizio segreto israeliano". Il dott. Servatius, che disperatamente ma invano cercò sia al processo che in appello di chiamare a deporre Zvi Tohar (primo pilota dell'aereo dell'El-Al che portò via Eichmann dall'Argentina) e Yad Shimoni (funzionario della compagnia aerea in Argentina), si richiamò alla dichiarazione di Ben Gurion. Ma il Procuratore generale rispose che il Primo ministro aveva parlato soltanto di "ritrovamento," e che ciò non significava che Eichmann fosse stato anche rapito da agenti governativi. Orbene, allo stato dei fatti, sembra che la verità sia esattamente l'opposto: non furono gli uomini del servizio segreto a rintracciare Eichmann, ma furono proprio loro a rapirlo, una volta scoperto, dopo qualche controllo preliminare per assicurarsi che fosse lui. E in questi controlli non si rivelarono nemmeno molto esperti, poiché Eichmann si accorse di essere pedinato: "Mi pare di avervelo già detto qualche mese fa, quando mi chiedeste se sapevo di essere stato scoperto, e allora vi fornii anche spiegazioni precise. […] Venni a sapere che nelle vicinanze di casa mia qualcuno si era informato sui terreni ecc. ecc. per impiantare una fabbrica di macchine da cucire: una cosa completamente assurda, poiché in quella zona non c'era né luce elettrica né acqua. Inoltre seppi che queste persone erano ebrei del Nord-America. Avrei potuto benissimo sparire, ma non lo feci, continuai come al solito e lasciai che le cose andassero come volevano. Non avrei avuto difficoltà a trovare un impiego, con i miei documenti e le mie referenze. Ma non volevo".
Sul fatto che egli non avesse paura di andare in Israele e di essere processato ci sono più prove di quante non ne siano state rivelate a Gerusalemme. Naturalmente il difensore sottolinea che in fondo l'imputato era stato rapito e "trasportato in Israele in contrasto col diritto internazionale," ma lo fece perché ciò gli permetteva di contestare la competenza della Corte a giudicarlo, e l'accusa e i giudici, benché non ammettessero mai che il ratto era stato un "azione di Stato," neppure lo negarono. Sostennero che la violazione del diritto internazionale era una cosa che riguardava soltanto la Repubblica argentina e lo Stato d'Israele e non aveva nulla a che vedere con i diritti dell'imputato, e che del resto questa violazione era stata "sanata" mediante la dichiarazione congiunta con cui i due governi, il 3 agosto 1960, avevano deciso di "considerare chiuso l'incidente provocato dall'azione di cittadini d'Israele che hanno violato i fondamentali diritti della Repubblica argentina". Secondo la Corte, che quegli israeliani fossero agenti governativi o privati cittadini non aveva alcun peso.
Una cosa però a cui né la difesa né la Corte accennarono mai, fu che l'Argentina non avrebbe rinunziato con tanta disinvoltura ai suoi diritti se Eichmann fosse stato cittadino argentino. Ma egli era vissuto lì sotto falso nome, e con ciò si era privato da sé del diritto di essere protetto dal governo, almeno come Ricardo Klernent (nato il 23 maggio 1913 a Bolzano, come si leggeva sulla sua carta d'identità). Né aveva mai invocato il diritto d'asilo: cosa che però gli sarebbe servita assai poco perché l'Argentina, sebbene abbia offerto praticamente asilo a molti famigerati criminali nazisti, è uno Stato che ha firmato una convenzione internazionale ove si dice che le persone ree di crimini contro l'umanità "non saranno considerate perseguitati politici". Malgrado questo, Eichmann non era un apolide, giuridicamente aveva sempre la nazionalità tedesca; ma la Germania-Ovest ebbe buon gioco a negargli la protezione di solito accordata ai tedeschi all'estero. In altre parole, nonostante le pagine e pagine di ragionamenti giuridici che si sono scritte, nonostante i precedenti invocati (così tanti che si ha quasi l'impressione che il ratto sia una delle forme più comuni di arresto), se la Corte di Gerusalemme poté giudicare Eichmann fu solo perché di fatto egli era un apolide, e solo per questo. Ed Eichmann, benché non fosse un giurista, non dovette meravigliarsene: tutta la sua carriera gli insegnava che degli apolidi si poteva fare quello che si voleva, tanto che per sterminare gli ebrei si era dovuto prima provvedere a renderli senza patria. Tuttavia non era nello stato d'animo di pensare a queste finezze e di tirarne le conseguenze per salvarsi. Ché se non è vero che egli andò volontariamente in Israele per farsi processare, è vero però che egli fece molte meno difficoltà di quello che ci si sarebbe potuti aspettare. In pratica non ne fece nessuna.
L'11 maggio 1960, alle diciotto e trenta, mentre come al solito scendeva dall'autobus che lo riportava a casa dal lavoro, Eichmann fu afferrato da tre uomini e in meno di un minuto gettato in un'auto che sostava nei pressi. Fu portato in un remoto sobborgo di Buenos Aires, in una casa che i suoi rapitori avevano preso in affitto da qualche tempo. Nessuna droga, nessuna corda, nessuna manetta fu usata, e Eichmann capì subito che si trattava di un colpo da professionisti, effettuato senza inutile violenza. Non se la prese. Quando gli chiesero chi era, rispose senza esitazioni: "Ich bin Adolf Eichmann”, e, frase sorprendente, aggiunse: "So di essere nelle mani d'israeliani". (Più tardi spiegò di aver letto su qualche giornale che Ben Gurion aveva ordinato di scovarlo e catturarlo.) Per otto giorni, mentre in Israele si attendeva l'arrivo dell'aeroplano dell'El-Al che doveva portare rapitori e prigioniero, Eichmann rimase in quella casa legato a un letto, e questa fu l'unica cosa di cui si lamentò. Al secondo giorno di prigionia fu invitato a dichiarare per iscritto che non aveva nulla in contrario ad essere processato da un tribunale israeliano. Naturalmente il testo della dichiarazione era già pronto, e lui non doveva fare altro che firmarlo. Senonché con sorpresa di tutti egli pretese di scrivere una dichiarazione a modo suo, utilizzando il testo già preparato, a quanto pare, soltanto nella parte introduttiva: "Io sottoscritto, Adolf Eichmann, dichiaro di mia spontanea volontà che, essendo stata ormai scoperta la mia vera identità, mi rendo perfettamente conto che sarebbe inutile cercare di sfuggire ulteriormente alla giustizia. Perciò mi dichiaro disposto a recarmi in Israele e affrontare il giudizio di un tribunale, un tribunale autorizzato. È chiaro e sottinteso che mi sarà concessa assistenza legale [qui finisce probabilmente la parte ricopiata], e io cercherò di scrivere che cosa ho fatto nei miei ultimi anni di attività pubblica in Germania, senza abbellimenti di sorta, in modo da dare un quadro veritiero alle generazioni future. Faccio questa dichiarazione di mia spontanea volontà, non allettato da promesse né costretto con minacce. Voglio finalmente essere in pace con me stesso. Non potendo ovviamente ricordare tutti i particolari, e avendo l'impressione di confondere i fatti, chiedo che si mettano a mia disposizione documenti e dichiarazioni giurate onde aiutarmi nel mio sforzo di ricercare la verità. Firmato: Adolf Eichmann. Buenos Aires, maggio 1960". […] La signora Eichmann denunziò alla polizia argentina la scomparsa del marito, senza tuttavia rivelare chi egli realmente fosse, e così non furono istituiti posti di blocco né alle stazioni ferroviarie, né sulle autostrade, né nei campi d'aviazione. È certo che gli israeliani ebbero fortuna: non sarebbero mai riusciti a portar via Eichmann dall'Argentina ben dieci giorni dopo la cattura, se la polizia fosse stata messa in allarme come si doveva.
Ci sono due modi per spiegare la sorprendente disposizione di Eichmann a collaborare con la giustizia. (Anche i giudici, pur considerandolo un "bugiardo," dovettero riconoscere che non era facile capire come mai egli avesse rivelato a Less "tanti particolari che prima della sua confessione non potevano essere provati, soprattutto i viaggi nell'Europa orientale, dove aveva veduto le atrocità con i propri occhi".) In Argentina, vari anni prima di essere catturato, egli già aveva scritto che era stanco di vivere nell'anonimo, e questa stanchezza doveva essere cresciuta in lui quanto più leggeva le cose che si scrivevano sul suo conto. La seconda spiegazione, da lui fornita in Israele, è assai più drammatica: "Circa un anno e mezzo fa [cioè nella primavera del 1959] sentii dire da un conoscente appena tornato da un viaggio in Germania che alcuni settori della gioventù tedesca erano tormentati da un senso di colpa... e per me il fatto che ci fosse questo complesso di colpa fu una cosa molto importante, importante come potrebbe essere, per così dire, l'atterraggio del primo uomo sulla luna. Divenne un punto essenziale della mia vita interiore, attorno al quale si cristallizzarono molti pensieri. Ecco perché non fuggii... quando mi accorsi che gli investigatori stavano stringendo la rete attorno a me... Dopo quelle conversazioni sul senso di colpa della gioventù tedesca, che mi fecero così profonda impressione, sentii che non avevo più il diritto di sparire. Ed ecco perché all'inizio di questo interrogatorio ho anche proposto, in una dichiarazione scritta... d'impiccarmi in pubblico. Volevo fare qualcosa per liberare i giovani tedeschi dal peso della colpa, poiché in fondo questi giovani non sono responsabili di ciò che è accaduto e di ciò che i loro padri hanno fatto durante l'ultima guerra" guerra che però, in un altro contesto, egli seguitava a chiamare una "guerra imposta al Reich". Naturalmente tutte queste erano chiacchiere vuote. Che cosa gli avrebbe infatti impedito di tornarsene da sé in Germania e di costituirsi? Quando gli rivolsero questa domanda, rispose che a suo avviso i tribunali tedeschi non potevano ancora avere l'"oggettività" necessaria per giudicare individui come lui. Ma se avesse preferito essere giudicato da una Corte israeliana (come più o meno lasciò intendere e come non è del tutto da escludere), avrebbe potuto risparmiare al governo israeliano tanto spreco di tempo e di fatica».
Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, 1963 (Feltrinelli, trad. P. Bernardini).
Hannah Arendt (1906-1975), filosofa e politologa tedesca di origine ebraica, nota per la sua lucidità nell’analisi dei totalitarismi e della natura del potere, è stata una delle più influenti pensatrici del Novecento. Allieva di Karl Jaspers e protagonista di una tormentata relazione intellettuale e sentimentale con Martin Heidegger, Arendt ha saputo coniugare la riflessione filosofica con l’osservazione diretta della storia.
Tra le sue opere più importanti Le origini del totalitarismo (1951), in cui analizza le radici storiche e sociali dei regimi totalitari, e il reportage La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (1963).
La banalità del male nasce dall’esperienza di Arendt come inviata del New Yorker al processo di Gerusalemme contro Adolf Eichmann, uno dei principali organizzatori della “soluzione finale” nazista. Arendt racconta non solo il processo, ma anche la figura di Eichmann: non un mostro sadico, ma un uomo mediocre, incapace di pensare con la propria testa, che si rifugia nell’obbedienza cieca e nella routine burocratica. Da qui nasce il concetto di “banalità del male”: il male può essere compiuto da persone comuni, che rinunciano a giudicare e a scegliere, limitandosi a “fare il proprio lavoro”.
La banalità di Eichmann traspare anche dall’estratto relativo alla ricostruzione della sua cattura nel 1960: dopo la guerra, il suo nome emerge nei processi di Norimberga, ma lui riesce a fuggire e a rifarsi una vita sotto falso nome in Argentina. Solo nel 1960, grazie a un’operazione dei servizi segreti israeliani, viene rapito a Buenos Aires e portato a Gerusalemme per essere processato. La sua storia, fatta di fughe, identità false e una sorprendente normalità quotidiana, diventa il punto di partenza per una riflessione radicale sulla responsabilità individuale, la giustizia e il rapporto tra etica e politica.
Leggi anche #024 | Sei lezioni sulla storia di Edward Carr.
Acquista il libro su Amazon. | Torna al Blog di DW. | Home. | Manifesto. | Disclaimer sulle citazioni.