«L'avviso arrivò proprio sotto Natale, per cui devo essere andato al magazzino giù al porto la prima settimana del 1964. La data precisa non la ricordo. So che era mattina presto. Mi rivedo arrivare là ancora prima dell'apertura.
Consegnai la cartolina agli addetti, che andarono sul retro e tornarono con uno scatolone coperto di scritte in giapponese.
Corsi a casa, scesi a precipizio nel seminterrato e aprii lo scatolone. Dodici paia di scarpe color crema con strisce blu lungo i lati. Dio, quant'erano belle. Più che belle. Non avevo visto niente di meglio nemmeno a Firenze o a Parigi. Avrei voluto metterle su piedistalli di marmo o in cornici dorate. Le tenni controluce, le accarezzai come oggetti sacri, nel modo in cui uno scrittore potrebbe trattare dei taccuini nuovi o un giocatore di baseball delle mazze nuove.
Poi ne mandai due paia al mio vecchio allenatore alla Oregon, Bill Bowerman.
Lo feci d'impulso, perché era stato Bowerman a farmi pensare per la prima volta, a farmi riflettere su ciò che la gente si mette ai piedi. Bowerman era un allenatore geniale, un maestro della motivazione, un leader naturale di giovani; e c'era un capo di abbigliamento che riteneva essenziale per il loro sviluppo. Le scarpe. Era ossessionato da ciò che gli esseri umani calzavano.
Nei quattro anni in cui avevo corso per lui all'università, Bowerman s'intrufolava di continuo nel nostro spogliatoio per rubarci le calzature. Passava giornate intere a farle a pezzi, a ricucirle, poi ce le rendeva con qualche piccola modifica, che ci faceva correre come gazzelle o sanguinare. A prescindere dai risultati, proseguiva imperterrito. Era determinato a trovare modi nuovi di imbottire il collo, ammortizzare l'intersuola, creare più spazio per l'avampiede. Aveva sempre qualche nuovo disegno, qualche nuovo progetto per rendere le nostre scarpe più aerodinamiche, morbide e leggere. Soprattutto più leggere. Trenta grammi in meno in un paio di scarpe, diceva, equivalgono a 25 chili per miglio. Non scherzava. I suoi conti tornavano. Se prendi la falcata dell'uomo medio, che è di 1 metro e 80, e la distribuisci su un miglio (1,6 chilometri), ottieni 880 passi. Se elimini 30 grammi da ogni passo, ottieni 25 chili tondi tondi.
Anche se definirlo obiettivo è un eufemismo. Nella sua ricerca della leggerezza era disposto a provare di tutto. Animale, vegetale o minerale che fosse, qualsiasi materiale era ammissibile se poteva far meglio della pelle usata comunemente per le scarpe a quel tempo. Il che a volte voleva dire pelle di canguro. Altre volte di merluzzo. Non hai vissuto davvero finché non hai gareggiato contro i podisti più veloci al mondo indossando scarpe fatte di pelle di merluzzo.
C'erano quattro o cinque di noi nella squadra della corsa che fungevano da cavie per gli esperimenti di podologia di Bowerman, ma io ero in assoluto il prediletto. C'era qualcosa nei miei piedi che lo ispirava. Qualcosa nella mia falcata. Inoltre gli consentivo un ampio margine di errore. Non ero il migliore della squadra, per niente, per cui con me poteva permettersi di sbagliare. Con i miei compagni più dotati non osava azzardare.
Al primo, secondo e terzo anno di università, ho perso il conto delle gare corse con scarpe piatte o con i tacchetti modificate da Bowerman. All'ultimo anno ormai era lui a costruirmi le scarpe ex novo.
Perciò ero convinto che questa nuova Tiger, questa buffa scarpetta giapponese che ci aveva messo più di un anno ad arrivare, avrebbe incuriosito il mio vecchio allenatore. Non era leggera come le sue scarpe di pelle di merluzzo, ovviamente. Ma il potenziale c'era: i giapponesi avevano promesso di migliorarla. E, particolare non da poco, era economica. Sapevo che questo avrebbe fatto leva sulla sua innata frugalità.
Anche il nome della scarpa mi aveva colpito come qualcosa che avrebbe potuto far impazzire Bowerman, il quale soleva chiamare i suoi corridori «Uomini dell'Oregon», ma di tanto in tanto ci esortava a essere «tigri». Lo vedo ancora andare avanti e indietro nello spogliatoio a intimarci prima di una gara: «Siate TIGRI là fuori!». (Se non eri una tigre spesso ti chiamava «hamburger».) A volte, quando ci lamentavamo del magro pasto che precedeva la corsa, ringhiava: «Una tigre caccia meglio se è affamata».
Con un po' di fortuna, pensai, il Coach avrebbe ordinato qualche paio di Tiger per le sue tigri.
Ma che le ordinasse o meno, far colpo su Bowerman mi bastava. Avrebbe già rappresentato un successo per la mia società in erba.
Può anche darsi che tutto ciò che feci in quei giorni fosse motivato dal profondo desiderio di impressionare, di compiacere Bowerman. Dopo mio padre, non c'era nessuno di cui anelassi maggiormente l'approvazione e, dopo mio padre, non c'era nessuno che la lesinasse di più. La frugalità permeava ogni fibra del mio allenatore così avaro di lodi, che pesava come fossero diamanti grezzi.
Dopo che avevi vinto una gara, se eri fortunato, Bowerman avrebbe potuto dirti: «Bella corsa». (In effetti fu precisamente quello che disse a uno dei suoi atleti che correvano la distanza del miglio quando abbassò il mitico record statunitense dei 4 minuti.) Ma era più probabile che Bowerman non dicesse niente. Ti si metteva di fronte con la sua giacca di tweed e il gilè decrepito, il cravattino che svolazza al vento e il malconcio berretto da baseball calato sulla fronte e annuiva una sola volta. Forse ti avrebbe lanciato un'occhiata. Quegli occhi azzurro pallido, a cui nulla sfuggiva, non ti concedevano niente. Tutti parlavano di quanto fosse avvenente Bowerman, con il suo taglio a spazzola retrò, la postura impettita, la linea levigata del mento, ma quello che colpiva me era il suo sguardo di puro azzurro.
Mi conquistò fin dal primo istante. Nel momento in cui arrivai alla Oregon University, nell'agosto 1955, m'innamorai di Bowerman. E ne ero intimorito. Nessuno di questi impulsi iniziali svanì con il tempo, rimasero sempre tra noi. Non smisi mai di amarlo, né trovai mai il modo di liberarmi della vecchia paura. A volte diminuiva, a volte aumentava, a volte mi scendeva nelle scarpe, che probabilmente aveva cucito con le sue mani. Amore e timore, le stesse emozioni binarie governavano le dinamiche tra me e mio padre. Mi veniva da chiedermi se fosse soltanto un caso che Bowerman e mio padre – entrambi criptici, entrambi maschi alfa, entrambi imperscrutabili – si chiamassero tutti e due Bill.
Eppure, i due uomini erano spinti da demoni diversi.
Mio padre, figlio di un macellaio, non faceva che inseguire la rispettabilità, mentre a Bowerman, il cui padre era stato governatore dell'Oregon, della rispettabilità non importava un fico secco. Era anche il nipote di pionieri leggendari, uomini e donne che avevano percorso per intero la pista dell'Oregon. Quando si erano fermati, avevano fondato una minuscola cittadina nell'Oregon orientale, che avevano chiamato Fossil. Bowerman ci aveva trascorso l'infanzia, e non poteva fare a meno di tornarci periodicamente. Con la testa era sempre un po' a Fossil, il che era buffo, perché in lui c'era qualcosa di fossilizzato. Tosto, scuro di carnagione, antico, possedeva una vena preistorica di mascolinità – un misto di fegato e integrità e calcificata ostinazione – rara nell'America di Lyndon Johnson. E quasi estinta oggigiorno.
Era anche un eroe di guerra. Ovviamente. Da maggiore nella Decima divisione da montagna, di stanza sulle Alpi italiane, Bowerman aveva sparato a molti e in tanti avevano risposto al fuoco. (La sua aura ti intimidiva a tal punto che non ricordo nessuno che gli abbia mai chiesto se avesse effettivamente ucciso qualcuno.) Nel caso fossi stato tentato di ignorare la guerra e la Decima divisione e il loro ruolo centrale nella sua psiche, Bowerman si portava sempre appresso una malconcia cartella di cuoio con il numero romano X inciso in oro su un lato.
Pur essendo l'allenatore di podisti più famoso d'America, non si definì mai un allenatore. Detestava essere chiamato Coach. Dati i suoi trascorsi, e il modo in cui era fatto, considerava la corsa un mezzo per raggiungere un fine. Si autodefiniva un «Professore di risposte competitive» e il suo compito, per come lo vedeva e spesso lo descriveva lui, era quello di prepararti alle lotte e alle competizioni future, fuori dell'università.
Nonostante quella nobile missione, o proprio perché così nobile, le strutture della Oregon erano spartane. Pareti di legno che trasudavano umidità, armadietti che non vedevano una mano di vernice da decenni. Non avevano neanche gli sportelli, semplici assicelle separavano la tua roba da quella del vicino. Appendevamo i vestiti a dei chiodi. Arrugginiti. A volte correvamo senza calze. Non ci passò mai per l'anticamera del cervello di protestare. Consideravamo il nostro allenatore un generale, al quale obbedire prontamente e ciecamente. Per me era Patton con un cronometro in mano.
Cioè, quando non era un dio.
Come tutte le divinità antiche, Bowerman abitava in cima a un monte. Il suo ranch maestoso sorgeva su un'altura che dominava il campus. E quando riposava sul suo personale Olimpo, poteva essere vendicativo come soltanto gli dei sanno essere. Una storia, raccontatami da un compagno di squadra, era emblematica.
A quanto pareva, c'era un camionista che osava turbare la quiete sulla montagna di Bowerman. Prendeva le curve a velocità eccessiva e spesso gli buttava giù la cassetta delle lettere. Bowerman l'aveva preso a male parole, minacciato di dargli un pugno sul naso e così via, ma il camionista faceva orecchie da mercante. Guidava come gli pareva, un giorno dopo l'altro. Così Bowerman riempi la cassetta di esplosivo. La volta successiva, quando il camionista ci andò a sbattere... bum! Quando il fumo si fu diradato, il camionista trovò il suo camion a pezzi, le gomme ridotte a fettucce. Non toccò mai più la cassetta delle lettere di Bowerman».
Phil Knight, L’arte della vittoria, 2016 (Mondadori, trad. G. Lupi, L. Tasso, G. Zucca).
In L’arte della vittoria Phil Knight racconta l’arrivo delle prime scarpe Tiger dal Giappone, nel 1964. Dodici paia di scarpe color crema con strisce blu, custodite in uno scatolone pieno di scritte in giapponese. Non erano solo scarpe: erano il simbolo di un’idea che stava prendendo forma.
Il primo pensiero andò a Bill Bowerman, il suo ex allenatore all’Università dell’Oregon. Non un allenatore qualunque, ma un uomo ossessionato dai dettagli. Bowerman smontava e ricuciva scarpe per guadagnare pochi grammi, convinto che trenta grammi in meno potessero fare la differenza su un miglio. Era disposto a sperimentare con qualsiasi materiale: pelle di canguro, di merluzzo, qualsiasi cosa potesse rendere una scarpa più leggera.
Quando Knight gli inviò due paia di quelle Tiger, non stava solo cercando un’opinione tecnica. Stava cercando di coinvolgere l’unica persona che condivideva la stessa ossessione: migliorare, innovare, spingersi oltre. Da quell’incontro di visioni nacque una collaborazione che avrebbe cambiato la storia dello sport. Nello stesso anno, Knight e Bowerman fondarono la Blue Ribbon Sports, che nel 1971 divenne la Nike.
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