«Come molti altri orientamenti della psicologia moderna, alcune delle primissime idee sulla curiosità sono state ispirate dal lavoro del filosofo e psicologo William James, che verso la fine del XIX secolo, dando prova di preveggenza e usando la terminologia cognitiva di oggi, ipotizzò che quella che chiamava «meraviglia metafisica» o «curiosità scientifica» fosse una risposta del «cervello filosofico» a una «incoerenza o un gap nella [...] conoscenza, proprio come il cervello musicale risponde a una dissonanza in ciò che ascolta». Ipotizzò inoltre che la curiosità rappresentasse il desiderio di imparare qualcosa di più su ciò che non comprendiamo. Un secolo dopo, lo psicologo George Loewenstein (della Carnegie Mellon) ha formulato una versione teorica contemporanea di queste idee, una cornice concettuale di straordinaria influenza oggi nota come la «teoria del gap nell'informazione» («information-gap theory»).
L'idea di base sottesa a questa spiegazione della curiosità è semplice […]. Si parte dalla ragionevole assunzione secondo cui gli individui hanno delle nozioni preconcette riguardo al mondo che li circonda (o, se si vuole, riguardo a un qualunque argomento) e cercano la coerenza. Così, quando ci imbattiamo in qualche fatto che sembra essere incompatibile con le nostre conoscenze precedenti (che siano reali o soltanto immaginate), con il nostro modello predittivo interno o con i nostri pregiudizi, si genera un gap una lacuna o uno scarto che noi avvertiamo come qualcosa di negativo e che ci provoca una sensazione spiacevole; di conseguenza, siamo spinti a indagare e a cercare nuove intuizioni che ci portino a ridurre l'incertezza e la sensazione di ignoranza. In questa prospettiva, la curiosità e il comportamento esplorativo che ne consegue non sono dei fini in se stessi; piuttosto, sono i mezzi attraverso i quali tentiamo di ridurre la sensazione di disagio provocata dall'incertezza e dalla confusione. Per citare Loewenstein, la curiosità è una «deprivazione cognitiva indotta che sorge dalla percezione di un gap nella conoscenza e nella comprensione»; in parole semplici, stando alla teoria del gap nell'informazione, la curiosità è come grattarsi un prurito mentale o intellettuale. […]
Numerose ricerche svolte nel campo della psicologia nel corso degli ultimi decenni – e in quello delle neuroscienze in anni recenti – confermano almeno alcuni aspetti della teoria del gap nell'informazione. Per esempio, diversi studi hanno dimostrato che quando le persone si trovano di fronte a oggetti o situazioni insolite, sorprendenti o complesse, tali circostanze portano un aumento significativo dell'attenzione. Alcune di queste ricerche hanno mostrato che il desiderio di indagare durava solo fino a quando le persone percepivano di aver superato l'incertezza attraverso l'acquisizione di nuove informazioni. Loewenstein sostiene inoltre che la stima delle persone riguardo alla grandezza del gap dipende dal giudizio soggettivo sulla profondità delle proprie conoscenze e sulla propria capacità di recuperare informazioni; questo è ciò che gli scienziati cognitivi indicano come la «sensazione di sapere». Loewenstein ha ipotizzato che un individuo con una sensazione di sapere più intensa potrebbe ritenere sormontabile un determinato gap di informazione che per altri soggetti non lo è. Si presume poi che questa capacità percepita di superare un gap nella conoscenza venga a sua volta a rafforzare la curiosità, in quanto gli individui avrebbero l'impressione di essere in grado di rimuovere l'incertezza senza troppo sforzo e di liberarsi cosi dallo sgradevole stato di ansia. Per esempio, se una persona pensa di conoscere i nomi di quasi tutti gli attori che hanno recitato in un certo film, è probabile che possa fare uno sforzo extra per ricordare l'unico nome mancante.
La teoria del gap nell'informazione di Loewenstein ci offre un'interessante prospettiva sulla natura di almeno alcune delle forme di curiosità. In particolare, è facile vedere come la curiosità specifica – il bisogno di acquisire una determinata informazione – possa essere stimolata da questo gap. In ogni giallo – che sia un romanzo di Agatha Christie, Dan Brown o Robert Galbraith (pseudonimo di J.K. Rowling) oppure un film di Alfred Hitchcock – noi siamo curiosi di sapere chi ha commesso l'omicidio, e talvolta anche perché e come. Allo stesso modo, se il vostro migliore amico venisse a dirvi «Ho qualcosa di estremamente importante da raccontarti», per poi aggiungere subito «Ma no, guarda, non importa, lasciamo stare», potrebbe essere davvero esasperante. In casi di questo genere, l'identificazione del gap nell'informazione – della lacuna da riempire – è immediata, e la curiosità sorge proprio perché siamo del tutto consapevoli della precisa differenza tra ciò che sappiamo e ciò che vorremmo sapere. Un gap nell'informazione è anche la ragione per cui ci mettiamo a origliare la metà di una conversazione, dato che sentire qualcuno che sta parlando al cellulare è una cosa che ci incuriosisce e ci distrae di più che sentire una conversazione intera. In uno studio condotto da alcuni psicologi della Cornell University, i ricercatori hanno scoperto che ascoltare questi «mezzi dialoghi» porta a un deterioramento delle performance in una varietà di attività cognitive che richiedono attenzione. Quando ci manca l'altra metà della storia, non siamo in grado di predire il flusso della conversazione e, di conseguenza, troviamo in pratica impossibile non prestare attenzione ai mezzi dialoghi. La principale autrice dello studio della Cornell, Lauren Emberson, ha avuto l'idea di esaminare questo fenomeno viaggiando su un autobus per tre quarti d'ora al giorno per andare all'università. «Quando qualcuno era al cellulare, avevo davvero l'impressione di non poter fare a meno di ascoltarlo» ha spiegato».
Mario Livio, Curiosi. L'arte di fare le domande giuste nella scienza e nella vita, 2017 (Rizzoli).
Nel saggio di Mario Livio, la curiosità viene analizzata da una prospettiva psicologica, con riferimento alla teoria del gap informativo elaborata da George Loewenstein in The Psychology of Curiosity (1994). Secondo questa teoria, la curiosità nasce dalla percezione di una mancanza di conoscenza che genera disagio e spinge a colmare il vuoto. Tuttavia, numerose ricerche hanno mostrato che il desiderio di indagare dura solo fino a quando la persona ritiene di aver superato l’incertezza: una volta percepito il gap come colmato, la spinta si esaurisce. In questa visione, la curiosità non è un fine in sé, ma un meccanismo funzionale per ridurre l’incertezza e ripristinare coerenza.
Per leggere l’articolo sulla visione antropologica della curiosità di Desmond Morris (La scimmia nuda, 1967), clicca qui.
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