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#018 | Il libro dei pigri felici di Passig e Lobo

01-02-2025 09:00

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Saggistica, what a contrarian thinks,

#018 | Il libro dei pigri felici di Passig e Lobo

Fino al tardo Medioevo la maggior parte degli uomini (liberi) lavorava al massimo sei ore al giorno...

«Il nostro corpo è di gran lunga più avanti della nostra coscienza; ha elevato il risparmio energetico a forma d'arte, fa solo lo stretto necessario e qualche volta nemmeno quello. Gli bastano un centinaio di grammi di scarti di macello e resti di piante fermentati per riuscire a portare in giro per il mondo un quintale (media tra gli autori) di ossa, carne e apparati vari. La maggior parte delle persone può decidere su due piedi di digiunare per qualche settimana senza risentirne, traendone anzi giovamento. Altri esseri viventi si sono scelti modelli sensibilmente più faticosi: il toporagno deve consumare il corrispettivo del suo peso corporeo in insetti e vermiciattoli, perché il suo metabolismo è un workaholic; è meglio non provare nemmeno a immaginarsi cosa succederebbe se anche il corpo umano fosse programmato in modo simile. Quello che nella società e in politica è ormai un argomento all'ordine del giorno, nei milioni di anni in cui il corpo umano si è sviluppato, si è rivelato un principio fondamentale: il risparmio energetico è ben più di una virtù, è un presupposto per la sopravvivenza. E, a detta degli esperti, in alcuni ambiti l'essere umano è pur sempre superiore al toporagno. Imparare dalla naturale efficienza del corpo significa imparare a riposare, significa imparare a risparmiare energie, e per migliaia di anni ne siamo stati anche consapevoli. Fino al tardo Medioevo la maggior parte degli uomini (liberi) lavorava al massimo sei ore al giorno. Sul "New York Times" del 25 novembre 2007 Graham Robb difendeva la tesi secondo cui in molte regioni d'Europa fino al Diciannovesimo secolo si praticava abitualmente una sorta di letargo e non solo in zone dagli inverni rigidi come le Alpi o la Russia, ma anche, per esempio, tra i viticoltori della Borgogna. Dopo l'ultima vendemmia si bruciava il materiale organico rimasto, si riparavano un paio di apparecchiature e si riposava fino alla primavera successiva. Robb cita un funzionario di stato francese che nel 1844 ricevette l'incarico di studiare l'economia di questi vignaioli e constato sorpreso: "Queste persone molto vitali trascorrono le giornate a letto, stretti gli uni agli altri per darsi calore e avere meno fame. [...] Gli abitanti di Beaucaire sur Rhône nei mercati estivi hanno guadagnato a sufficienza per trascorrere il resto dell'anno a fumare, a giocare a carte, ad andare a caccia e a dormire".

Per il suo libro Una geografia del tempo lo psicologo Robert Levine ha analizzato il modo in cui le diverse culture trattano la relazione con il tempo. Ha scoperto che il livello di sviluppo di un paese si desume dalle ore che i cittadini dedicano al lavoro: quanto più progresso c'è tanto meno è il tempo libero. Le società di cacciatori e raccoglitori sono quelle in cui, a detta di Levine, si lavora di meno: "I kapauku in Papua-Nuova Guinea sono convinti che non faccia bene lavorare per due giorni consecutivi. I boscimani Kung lavorano due giorni e mezzo alla settimana, per circa sei ore. Nelle isole Sandwich gli uomini si dedicano a un mestiere solo quattro ore al giorno". Si potrebbe controbattere che faranno una bella vita sulle spalle delle donne. Secondo Lenz, però, nei sistemi economici poco sviluppati anche le donne lavorano in media quindici, venti ore alla settimana, dunque sensibilmente meno di quanto previsto in Europa. La coscienza sporca di non aver combinato niente non solo sembra del tutto estranea a molte culture di Africa, Sudamerica o Asia, ma sembra aver colpito gli occidentali solo con l'avvento dell'industrializzazione.

Nella nostra società ci sono persone che in pochi mesi guadagnano abbastanza da non dover esercitare una professione, teoricamente, per il resto dell'anno o da potersi abbandonare al flusso degli eventi quotidiani. A ciò si aggiunga che nel solo 2006 in Germania è stata ereditata la stratosferica somma di 150 miliardi di euro, ovviamente perlopiù da persone ancora in età da lavoro. Ma avete sentito spesso storie di ereditieri che si sono licenziati per dedicarsi agli amati hobby, una volta che il lascito ha garantito loro la sicurezza economica? No, non le avete sentite spesso, perché nella società capitalistica tutto ciò che non appare finalizzato, produttivo ed efficiente è considerato una colpa. Per questo anche i non ereditieri, che dovrebbero rappresentare la maggioranza della popolazione, si buttano a capofitto nel lavoro per motivi non strettamente economici.

È nostra opinione che questa furia professionale, ineluttabile agli occhi della società, sia una delle cause principali per cui ci sentiamo oberati. È nostro desiderio vivisezionare la sensazione di essere perennemente costretti a lavorare, va da sé che per farlo prima bisogna averla uccisa. Vale dunque la pena di chiedersi da dove nasce questo senso del dovere e perché molte persone si sentano a disagio quando tentano di liberarsene.

Per andare all'origine della furia professionale seguiamo le tracce di Max Weber. Il suo scritto L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ci porta sulla strada giusta: l'ethos del lavoro protestante, caratteristico del movimento di riforma del Sedicesimo secolo, è il germe della coscienza sporca che ci assale se non siamo perennemente impegnati e non diamo fondo alle nostre energie in ogni cosa che facciamo. Il capostipite di questa fastidiosa concezione del lavoro aveva uno dei nomi più brutti che si possano immaginare, un nome che in tedesco è tutto un programma, vista la derivazione dal verbo zwingen, costringere: era lo svizzero Huldrych Zwingli. I suoi tentativi di riforma si basavano su idee similtalebanesche, che quanto a mestizia fanno concorrenza a una fossa buia. A un divieto della musica (perlomeno in chiesa) si univano le solite protervie protestanti, che raggiungevano il loro apice nella concezione del lavoro, secondo la quale la fatica costante e indefessa, senza alcuna gioia, equivale al timore di Dio: Zwingli considerava una dura sfacchinata alla stregua di una preghiera. […]

Lo storico Sigmund Widmer scrive inoltre: "La ricchezza e il benessere degli stati moderni, tranne per poche eccezioni, coincidono con l'adattamento dell'ethos del lavoro di Zwingli". In altre parole, se i nostri antenati non avessero interiorizzato l'etica protestante, oggi non avremmo gli amplificatori per le chitarre, e probabilmente non esisterebbe nemmeno internet. Per questo sentiamo il bisogno spontaneo di cercare di eguagliarli invece di starcene a stiracchiarci a letto tra le lenzuola stirate. Il successo economico di un'idea, però, non giustifica tutti i mezzi. I romani hanno messo in piedi l'acquedotto, le terme e il riscaldamento centralizzato, ma non per questo oggi consideriamo l'impiego degli schiavi il non plus ultra dell'organizzazione aziendale. D'altra parte, l'immensa crescita della produttività dai tempi di Zwingli non è determinata tanto dal lavoro indefesso quanto, piuttosto, dalle riflessioni su sistemi e mezzi più adeguati. Meglio perciò cercare di scindere con cautela gli aspetti positivi da quelli negativi della concezione protestante del lavoro: desiderare un costante miglioramento e cercare il modo di raggiungerlo non equivale a desiderare di tormentarsi con diciotto ore di fatica per fare più contento Dio.

Giacché ormai l'etica del lavoro protestante è diventata una parte costitutiva della nostra società, non bisogna scartabellare a lungo per rintracciarne lo spirito anche nella legislazione. A parte le ferie non pagate, non esistono classificazioni sociali adeguate per definire una pausa dal lavoro per mancanza di voglia o per un urgente viaggio di due anni in giro per il mondo; bisogna invece simulare la disoccupazione, l'autonomia o perfino l'iscrizione all'università, se non se ne vogliono pagare le conseguenze. Grazie all'etica protestante del lavoro la costanza, qualità tanto innaturale quanto infaticabile, ha acquisito un valore sproporzionato: interrompere il pagamento dei contributi, infatti, può causare una riduzione sensibile della pensione.

È facile immaginarsi che lo Zwingli che è in noi, unito ai moderni classici impieghi tra uffici e fabbriche, non ci farà mai più tornare a una dimensione naturale, perché per quarant'anni suddivide la vita attiva in lavoro e riposo dal lavoro. Per di più, il diritto sancisce che la "vacanza" serve solo a preservare la forza lavoro. La legge tedesca prescrive: "Durante le ferie non si può compiere alcuna attività lavorativa che contraddica lo scopo della vacanza". Questa fissazione con la produttività costante, sancita perfino dal diritto, non lascia nemmeno il tempo per riflettere e per dedicarsi ad attività veramente sensate.

L'enorme ondata dei blog sulla produttività, dei siti web e dei manuali di autoaiuto che negli ultimi dieci anni ci è piombata addosso, soprattutto dall'America, è l'indice del realizzarsi di un antico sogno che i datori di lavoro hanno nutrito fin dai tempi della Rivoluzione industriale: se un tempo i dipendenti dovevano essere tenuti costantemente sotto controllo, trattenuti in fabbrica e ammoniti, oggi si assumono da soli l'onere di apprendere tutto ciò che occorre alla presunta crescita della loro produttività. Dando un'occhiata al di là del pasticcio protestante, vediamo che anche in Giappone la cultura del lavoro sta prendendo una brutta china. In quel paese autoimporsi la furia lavorativa è considerato talmente auspicabile che spesso gli impiegati devono essere costretti a prendere le ferie. La conseguenza diretta di questo eccesso di disciplina è il karoshi, la morte per eccesso di lavoro, che da circa due decenni in Giappone è considerato un problema sociale».

 

Kathrin Passig e Sascha Lobo, Il libro dei pigri felici, 2008 (Feltrinelli, trad. P. Olivieri).

 

Il brano di Passig e Lobo mette in discussione l’ossessione contemporanea per la produttività, contrapponendola alla naturale inclinazione del corpo umano al risparmio energetico. Per milioni di anni, l’efficienza biologica è stata una strategia di sopravvivenza, mentre oggi la cultura del lavoro incessante, erede dell’etica protestante, trasforma il riposo in colpa. L’analisi storica e antropologica mostra come il tempo libero fosse un elemento naturale in molte società preindustriali, mentre la modernità ha imposto la costanza come valore assoluto, fino quasi a renderla legge.

Il testo invita a riflettere su un paradosso: la crescita economica non è frutto della fatica senza sosta, ma della capacità di innovare e ripensare i sistemi. Eppure, la pressione sociale spinge a identificare il valore personale con la produttività, alimentando un ciclo di ansia e sovraccarico. Recuperare il senso del limite e la legittimità del riposo non significa rinunciare al progresso, ma restituire equilibrio a una vita che rischia di essere interamente sacrificata sull’altare dell’efficienza.

 

Leggi anche #025 | Cattivi capi, cattivi colleghi di Alessandro e Renato Gilioli.

 

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