«Uno dei fenomeni che ha continuato a sorprendermi in questi anni, da quando ho cominciato a occuparmi di teoria della razionalità e dell'azione sociale, è stato la sordità delle scienze economiche e giuridiche alla reale natura della mente umana. Mi sono sempre chiesto come una disciplina che si occupa di spiegare e prevedere il comportamento economico (l'economia) o che ha l'obiettivo di individuare norme che guidino il comportamento del cittadino verso obiettivi di interesse pubblico (il diritto) potesse fare a meno di considerare come l'individuo ragioni e decida, cioè i meccanismi naturali del comportamento. In fin dei conti se l'economia ambisce a essere una scienza positiva, capace di spiegare e prevedere empiricamente i fenomeni economici, dovrebbe basare la sua teoria dell'azione sulla psicologia del ragionamento e della decisione, cioè su come l'individuo stima le probabilità di un evento, su come elabora l'utilità di una scelta, su come valuta le alternative ecc. In altre parole sulla realtà del suo comportamento economico. Se il diritto ambisce a essere efficace nella sua attività di carattere normativo dovrebbe prendere in considerazione come il cittadino si rappresenta, mentalmente, la norma, l'effetto di ciò sulle sue credenze precedenti e come questo effetto determini il comportamento successivo. In altre parole come l'individuo reagisca psicologicamente alla norma, nel senso di allinearsi o distanziarsi dalle sue finalità, in base alla interpretazione che ne dà e ai relativi effetti cognitivi ed emozionali sul suo comportamento.
Sembra incredibile, ma sia economia che diritto non sono sembrati interessati a comprendere il reale comportamento umano e a utilizzare le conoscenze scientifiche che si hanno su di esso. L'economia si è basata su un modello fittizio e irreale di attore economico (Homo oeconomicus) la cui «mente» è costituita da un insieme di algoritmi di ottimizzazione e il cui comportamento è spinto solo da incentivi positivi o negativi di tipo monetario. Il diritto a sua volta si è creato, più alla buona, il suo Homo juridicus cioè il modello poco sofisticato di attore che viene guidato, pavlovianamente, soprattutto dal comportamento di evitamento, nell'associazione fra sanzioni e mancato rispetto della norma.
Oggigiorno l'economia e meno il diritto riconoscono che è venuto il momento di aprirsi ai risultati delle scienze cognitive e comportamentali e di riformulare il loro modello di attore. Si tratta però ancora di cambiamenti più di carattere accademico, che non vanno molto a intaccare l'utilizzo delle scienze economiche e giuridiche nella formulazione delle politiche pubbliche. Fino a pochi anni fa vi era un consenso quasi unanime fra i policy makers sul fatto che qualsiasi legge, regolamentazione o normativa dovesse fare riferimento solo all'analisi economica, a qualche dato di natura sociologica oltre che, in primis, al codice e al pensiero giuridico. Il baricentro della coerenza verso il codice e il contesto giuridico cambiava a seconda della civiltà giuridica di riferimento. Molto nel caso del diritto romano dell'Europa continentale e meno in quello di Common Law di tipo anglosassone.
I vari e frequenti fallimenti di mercato derivanti dalle proposte economiche – si pensi solo alla crisi economica iniziata nel 2007 e durata in Europa dieci anni – e i fallimenti dell'attività normativa e legislativa nel guidare in modo efficace i comportamenti del cittadino verso gli obiettivi delle istituzioni democratiche – si pensi ancora alla complessità e all'opacità dei nostri codici – hanno spinto i policy makers a cercare qualche soluzione alternativa agli inefficaci strumenti tradizionali. Lo sviluppo dell'economia comportamentale e della finanza comportamentale, in ambito accademico, soprattutto in campo microeconomico, si è riflesso nel suo utilizzo da parte delle aziende, delle istituzioni finanziarie e dei policy makers. Il diritto, soprattutto europeo e in particolare italiano, non ha manifestato la stessa attenzione e apertura. L'unica eccezione è da parte di quel diritto più integrato con l'analisi economica, come la disciplina del «diritto ed economia». In quest'area si è vista una certa apertura all'analisi cognitiva e comportamentale del diritto con la nascita della corrente della behavioral law and economics.
Le premesse per una convergenza e un'integrazione fra politiche pubbliche e scienze cognitive e comportamentali erano più che mature. Herbert Simon, premio Nobel per l'economia nel 1978 e padre fondatore delle scienze cognitive, aveva iniziato la sua carriera accademica da scienziato politico e le sue più importanti innovazioni le aveva introdotte studiando, nella tesi di dottorato, il funzionamento del comune di Milwaukee. La più importante di tutte, il concetto di razionalità limitata, prende origine proprio dallo studio dell'organizzazione pubblica come strumento per superare la limitazione cognitiva del singolo decisore umano. Cosa aveva riscontrato Simon? Che la divisione delle mansioni e l'emergenza delle routine organizzative sono fenomeni che permettono l'elaborazione di decisioni complesse da parte dei vertici amministrativi e politici. Il capo di una amministrazione politica e i suoi consulenti, quando devono prendere una decisione di politica pubblica, sono soggetti a tutta una serie di limitazioni, nella raccolta di informazioni sul tema in oggetto, nella rappresentazione ed elaborazione delle stesse, nella messa a fuoco delle opzioni disponibili rilevanti e nella previsione dei loro effetti nel tempo. Una buona organizzazione permette di superare molti ostacoli, ma non tutti. Più il decisore pubblico ha, nella sua organizzazione, le competenze necessarie per calibrare la norma, in modo da scontare la reazione psicologica del cittadino a cui essa è rivolta, maggiormente riuscirà a raggiungere gli obiettivi prefissati. Uno dei limiti della razionalità del decisore pubblico è infatti più legata all'ambiente di scelta che alle caratteristiche cognitive del soggetto. Questo limite sta proprio nella difficoltà ad avere le informazioni critiche per modulare la norma in modo che risulti psicologicamente efficace. Con informazioni critiche si intendono, in questo caso, le conoscenze sulle modalità comportamentali dei soggetti oltre che sulle condizioni iniziali di tipo economico, sociale e normativo. Cosa significa modalità comportamentali del soggetto? Significa la possibilità di conoscere dei profili di comportamento, abbastanza stabili, che potrebbero essere innescati dal cambiamento dei contesti e degli ambienti di scelta dell'individuo. Sulla base di queste conoscenze il policy maker potrebbe calibrare la norma in modo che raggiunga l'obiettivo voluto.
La strada aperta da Simon trova nello sviluppo del Programma euristiche e biases di Daniel Kahneman e Amos Tversky la risposta parziale a questa esigenza. Dagli anni Settanta a oggi Kahneman, e fino alla sua scomparsa prematura Tversky, insieme a un numero crescente di collaboratori e colleghi hanno sondato vari aspetti della cognizione umana, legata ai processi di giudizio e decisione. Si è preso il modello di razionalità economica come riferimento normativo e si sono confrontate le performance comportamentali umane in vari contesti di scelta. Rispetto a quel benchmark, si è messa in luce una serie di errori, biases (definibili come errori cognitivo-sistematici), pregiudizi ed effetti, soprattutto nel giudizio statistico e nel calcolo della probabilità. Questi errori si sono sommati a quelli rilevati in modo separato da altri psicologi nel ragionamento deduttivo, come il «pregiudizio di conferma», e a vari fenomeni di disturbo decisionale legati alla sfera emozionale e affettiva. Ciò ha dato una rappresentazione a tinte fosche della razionalità umana. Si è constatata in questo modo una regolarità, legata all'attivazione di meccanismi naturali di decisione semplificata, chiamati euristiche, responsabili, il più delle volte, di risposte subottimali da parte dell'individuo. I risultati empirici sono stati ottenuti in test sperimentali, prevalentemente astratti, su campioni rappresentati soprattutto da studenti dei college americani. Una delle regolarità più importanti è stata la scoperta di come l'individuo tratta il rischio in rapporto a situazioni di guadagno e perdita e di come vengono pesate le probabilità estreme rispetto a quelle medie. La teoria del prospetto è il risultato più importante di questo lavoro e l'alternativa più forte alla teoria dell'utilità, di stampo neoclassico. Con questi risultati si sono messi in luce vari pattern comportamentali stabili, di tipo automatico, legati al contesto. Il più significativo sembra l'«effetto framing» (incorniciamento) che dimostra come l'individuo sia influenzato in modo evidente dalla maniera in cui vengono presentate le informazioni e in base a questa cornice la sua decisione sarà più o meno propensa al rischio».
Riccardo Viale, Oltre il nudge, 2018 (Il Mulino).
Per anni, economia e diritto hanno parlato di comportamento umano senza preoccuparsi di come funziona davvero. Hanno preferito modelli astratti, attori razionali, incentivi e sanzioni. L’individuo non interpreta, non dubita, non si contraddice: risponde.
Viale ricostruisce con metodo la distanza tra teoria e realtà, mostrando come le scienze cognitive abbiano messo in crisi l’idea di razionalità ottimizzante. Non si tratta di correggere l’individuo, ma di partire da come ragiona.
La razionalità limitata non è un difetto: è il materiale di lavoro. Ignorarla significa progettare strumenti ciechi, che non vedono chi devono raggiungere. Il comportamento non è un algoritmo, e la norma non è un comando. È il contesto che decide se funzionano.
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