«Quando chiediamo a una persona che cosa aumenterebbe il suo livello di felicità, ci aspettiamo in genere che «più soldi» debba essere almeno parte della risposta. In effetti, le persone benestanti tendono a pensare di aver bisogno di più soldi più di quanto non facciano i poveri. Tuttavia, come hanno rilevato i ricercatori che si sono occupati di felicità, le persone non sono molto brave a predire ciò che le renderà effettivamente felici – al di là dell'esplosione istantanea di eccitazione che si immaginano quando varie possibili fonti di piacere vengono loro suggerite.
In ogni caso, l'idea che il denaro non sia in effetti una strada per la felicità è nota e apparentemente popolare già da un po'. […]
Il punto di partenza di molte delle ricerche contemporanee sulla felicità è l'osservazione che quasi tutti pensano che sarebbero più felici se avessero più soldi, ma che gli studi dimostrano come questo non sia vero, fatta eccezione per i più poveri. In generale, quando hanno a disposizione più soldi le persone si abituano ben presto e ritornano al medesimo livello di (in)soddisfazione di prima. […]
Tuttavia ci sono due aspetti da considerare. Prima di tutto, come accennato in precedenza, un aumento delle entrate migliora in maniera sostanziale e prolungata la vita di quelle persone che prima erano poverissime e sopravvivevano al di sotto della soglia di sussistenza. In secondo luogo, è il reddito relativo a rendere le persone più o meno felici: se riceviamo molto meno di altri, siamo molto meno felici.
In relazione a questo, e la cosa è fonte di delusione, le stesse statistiche indicano che se un individuo diventasse ricco, sarebbe più felice solo se la sua posizione fosse relativamente unica; se tutti diventassero molto più benestanti, non diventerebbero tutti molto più felici. Non si tratta di un'ipotesi pessimistica, ma di un'osservazione delle testimonianze storiche: durante il XX secolo in America e in Europa, ad esempio, lo standard di vita generale è drasticamente migliorato. Ma i livelli registrati di felicità sono rimasti sorprendentemente costanti.
Dal momento che non abbiamo una visione realistica dei nostri futuri possibili, e che non siamo in grado di comprendere che ci abitueremmo facilmente a una maggiore quantità di denaro, tendiamo a trascorrere sempre più tempo lavorando – cosa che non ci rende più felici – e di conseguenza meno tempo a fare altro. Una ricerca di psicologia sociale suggerisce che tutto ciò sia parte di un fenomeno più ampio, e cioè che le persone tendano a concentrarsi sulle cose sbagliate – quelle più superficiali – quando pensano alle possibilità future. Questo concetto è espresso in maniera eloquente da David Schkade dell'Università della California di San Diego, che riassume la sua ricerca in quest'area con l'affermazione: «Qualunque cosa su cui puoi concentrare la tua attenzione non è così importante come pensi».
Uno dei case study più curiosi di Schkade riguarda le persone che si trasferiscono in California. Molte persone sognano di stabilirsi in California. Non è una forma di propaganda che si ispira ai Beach Boys ma un semplice fatto: i sondaggi dimostrano regolarmente che questo è lo Stato in cui la maggior parte degli americani desidererebbe trasferirsi. Ogni anno più di un milione di persone si sposta in California da altri Stati. Ma è anche vero che ogni anno più di un milione di persone lascia la California per farsi una vita altrove. Qualcosa li attira, ma qualcosa poi li spinge verso altre mete. Schkade e il suo collega Daniel Kahneman ritengono che le persone che sognano di vivere in California siano vittime di una «illusione da focus»; si sono concentrati su un dettaglio attraente – il clima soleggiato – a discapito del quadro generale, che in questo caso è tutto il resto che insieme compone una vita.
I ricercatori hanno dimostrato questa interpretazione realizzando dei sondaggi in California, e in due Stati del Mid-West, il Michigan e l'Ohio. I risultati indicavano che le persone nel Mid-West erano soddisfatte della propria vita tanto quanto coloro che vivevano in California. Tuttavia, quando veniva chiesto ai partecipanti di predire quanto le altre persone sarebbero state felici, tutti concordavano nel ritenere che i californiani sarebbero stati più felici. In effetti, questi ultimi erano personalmente più felici per quel che riguardava il clima. Altrimenti, le loro esistenze non erano migliori o «più magiche» solo in virtù del sole splendente. È significativo che nessuno pensasse davvero che il clima fosse così importante. Tutti attribuivano un valore maggiore in termini della loro felicità ad altri fattori, quali le prospettive di un lavoro, la sicurezza personale e la vita sociale, e questo si rifletteva naturalmente nel fatto che i californiani e i mid-westerners riferivano livelli di felicità sorprendentemente simili.
Questo spiega perché molti se ne vadano dalla California, così come perché tanti ci si vogliano trasferire. Quelli che si trasferiscono in California, pare suggerire la ricerca, potrebbero essersi fissati erroneamente sulla tentazione del sole, senza realmente pensare alle altre cose che importano loro nella vita. D'altro canto quelli che se ne vanno si sono probabilmente stancati della famosa ossessione californiana per l'aspetto esteriore, o hanno nostalgia per le bellezze familiari degli Stati in cui sono cresciuti, o desiderano un ambiente più sicuro per le proprie famiglie. Ovviamente le persone si spostano per parecchie ragioni, ma l'illusione da focus» causata dal sole della California è un esempio calzante della nostra abilità di entusiasmarci troppo per «dosi lampo» di felicità e di dimenticare ciò che conta veramente. […]
Se solo potessimo sapere quali sono le cose che ci rendono davvero felici, non solo a breve termine, ma come fattore a lungo termine legato alla qualità della vita! Ma ora, grazie alla nuova «scienza della felicità» che si rifà all'economia e alla psicologia, possiamo. Dall'economia questa scienza prende l'idea che sia possibile analizzare i dati riguardo a una serie di input sociali o economici e dedurre una conclusione statistica su cosa abbia un effetto positivo o negativo. A differenza dell'economia tradizionale, tuttavia, non presuppone che il comportamento umano sia necessariamente spinto dal denaro e dall'interesse personale. Dalla psicologia invece mutua l'idea che gli stati d'animo delle persone siano importanti, e che l'esperienza personale possa, in termini generali, essere valutata e misurata. Questo campo emergente trae elementi utili anche dalla neuroscienza, dalla sociologia e dalla filosofia.
Piuttosto che ritenere la felicità un concetto poetico o romantico, la «nuova scienza» considera la presenza o assenza di felicità come un fatto empirico concreto. Misurare il livello di felicità non è difficile: basta chiedere alle persone di stabilire un numero, con una domanda del tipo: «tutto considerato, diresti che sei molto felice, abbastanza felice, o non molto felice?». In un sondaggio questo funziona bene, e produce dati empirici su quanto una persona dica di essere felice. Questo è, dunque, un fatto e non un sentimento (anche se è il risultato di un'autovalutazione di un sentimento), e quando lo incrociamo con altri dati empirici osserviamo che è un fatto che ha delle conseguenze. Per esempio, è stato rilevato che le persone felici vivono più a lungo delle persone meno felici. Questo non perché le persone infelici lo siano a causa di un terzo fattore che contribuisce alla loro prematura dipartita. Piuttosto, persone con circostanze altrimenti analoghe sembrano essere sorrette dalla loro indole solare.
Un'analisi particolarmente memorabile, conosciuta tra gli esperti come «lo studio sulle suore» e condotta da David Snowdon, è una vivida dimostrazione di questo ragionamento.
Lo studio riguarda un campione insolitamente omogeneo: un gruppo di suore cattoliche americane. Negli anni trenta, quando entravano a far parte delle School Sisters of Notre Dame, alle novizie veniva chiesto di scrivere un profilo autobiografico. Circa sessant'anni dopo, i ricercatori esaminarono centottanta di queste descrizioni scritte a mano, redatte quando le donne avevano in media ventidue anni, conservate negli archivi. Classificando le autobiografie secondo la quantità di «contenuto emotivo positivo», rilevarono che quest'ultimo era strettamente legato alla longevità. Tra coloro che erano vive nel 1991, più della metà di coloro che avevano prodotto gli scritti meno allegri – più di mezzo secolo prima – sarebbero morte prima della fine del decennio, mentre quelle che avevano riportato una storia più positiva durante la giovinezza avevano vite più lunghe, e solo una suora su cinque tra le più felici non sopravvisse nello stesso periodo. In altre parole, sembra che la felicità, a prescindere da altri fattori, allunghi la vita».
David Gauntlett, La società dei makers, 2011 (Marsilio, trad. T. Bonini e S. Maestro).
Pensiamo che più soldi portino più felicità. Gli studi dicono il contrario: dopo un picco iniziale, ci abituiamo e torniamo al punto di partenza. Vale per il denaro, vale per il sole della California. Ci concentriamo su dettagli che sembrano decisivi e ignoriamo il quadro generale: relazioni, sicurezza, senso di scopo.
La scienza della felicità non è poesia, è statistica: la felicità si misura, e chi è felice vive più a lungo. Ma la lezione è semplice e scomoda: non sappiamo prevedere cosa ci renderà felici. E mentre inseguiamo miraggi, lavoriamo di più per comprare cose che non cambiano la sostanza.
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